#neknomination “In te”

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(Renzi) In te

di Filippo Neviani – Luca Bottura – Giovanna Madia

 

Rilancerò il tuo pil

Con un gesto

Meglio del mago Silvan

 

Trasformerò la tua Panda

In un Hummer

Senza applicare il Taeg

 

Con me ti sentirai

Più meglio di un gagà

Vedrai che nella fabbrica

 

Ben presto sarai re

Marchionne sarai te

E la vita vivrai

Come una slide

 

Renzi è già in te

Io vivo in te

Con gli occhi cuccioli

 

In te

Senza un perché

Ma tu già sai

Che non puoi

Buttarmi via

 

Mi voterai

Quasi senza pensare

E poi sorriderai

 

Anche la Boschi

Sarà più migliore

Quando la sentirai

 

Tuo figlio a scuola andrà

Il banco mancherà

Ma l’avrà scelto

Renzo Piano

 

Alfano scorderai

La viola tiferai

La forza dell’Italia

Scoprirai

 

Io vivo in te

Entrato in te

Da un posto

Subdolo

 

In te

Renzi sta in te

Vent’anni almeno

Tu lo sai

Io durerò

 

Io riformerò

L’Iva ti abbasserò

Con i superpoteri

 

Se la Merkel guairà

Io poi la zittirò

Con un bell’occhiolino

 

Jawohl!

 

Il premier che tu vuoi

E’ dentro te

 

Io vivo in te

Io sono te

Saluta la Dc

 

In te

E se per te

Non son Karl Marx

Compra pure una vocal

 

E

Renzi: se 80 mi dà tanto

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Ottanta euro per molte famiglie sono una cifra importante.

In un anno, a occhio e croce, una famiglia di due persone (occupate) sfiorerà i 2000 euro di guadagno.

E allora perché quegli 80 euro, a mio parere, sono veleno?

Perché Renzi non chiede e non offre un patto agli italiani. Non dice: abbassiamo le tasse, ma esigiamo che siano pagate. Non promette: l’evasione fiscale sarà stanata, a beneficio delle persone perbene. Non afferma: italiani, senza un patto di legalità diffusa, quei soldi non vi basteranno, perché continuerete a vivere in un Paese senza servizi, senza diritti per i più deboli, senza garanzie e tutele per chi i 1500 euro al mese non li vede manco col binocolo.

Non scandisce: basta coi doppi lavori, con l’elusione, con i trucchi.

Cala semplicemente, se mai lo farà, quella che – senza una cittadinanza consapevole – è nient’altro che un’elemosina pre-elettorale. La scarpa destra europea, con la seconda – forse – da consegnare dopo il voto.

Un’elemosina con la quale, tra l’altro, si paga forse la prima ecografia all’ambulatorio privato. Per poi ricominciare a soffocare nell’ariaccia mefitica di chi a portafoglio vuoto torna, ipso facto, un cittadino di serie Z.

Siamo passati dal nipote di Letta al figlio di Silvio. Stessa cultura del coup de théâtre (il giochetto delle tasse nel giorno in cui passa il Porcellinum con Berlusconi), stesse anteposizione della comunicazione ai fatti, stesso disprezzo per le eventuali intelligenze altrui.

L’avete vista la giornalista giapponese – giornalista, non “signora”: giornalista – che gli ha chiesto come mai in Italia non puoi scegliere chi voti? Le ha risposto eludendo la domanda, rispiegando la legge elettorale a paperella, come se dovesse venderle una copia tarocca della Fontana di Trevi.

Ecco.

Preparate il kimono.

 

L’olio extravergine di oliva: una presa (diretta) per i fondelli

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Ieri sera guardavo Presa Diretta, dell’ottimo Iacona, roba che da sola vale il prezzo del canone. Si raccontava degli oli taroccati. E, al solito, mi sono sentito nel giorno della marmotta. Perché quella storia, senza approfondirla troppo, l’avevo già raccontata più o meno 10 anni fa. Il libro, sequel dell’omonimo tomo di Michele Serra, si intitolava “Tutti al Mare Vent’Anni Dopo”. Scrivevo di Calabria.

SEMINARA

Se c’è una cosa che ti colpisce, entrando in Calabria sulla Statale 16, è l’ottimismo. Quello dei ciuffi di cemento armato che spuntano dai tetti delle case, pronti a fare da nerbo per il sopralzo che verrà, quando ci saranno i soldi. E quello di una campagna contro gli incendi che accompagna questa e altre strade a cadenza regolare e ineludibile. Lo slogan è “Calabria, incendio domato”, e per darle un volto devono a verci pensato a lungo. Serviva, com’è ovvio, la faccia di uno che conosce il problema, autorevole, fortemente legato al territorio. Hanno scelto Massimo Giletti. E a me, al decimo chilometro in compagnia del suo faccione piallato col computer, è venuta una gran voglia di cominciare a fumare e spargere mozziconi per la macchia mediterranea.

Scendendo verso Vibo Valentia, a Limbadi, un altro sprazzo di fiducia nel futuro. Uno dei piccoli frantoi strozzati dalla grande distribuzione che vendono il proprio olio pregiatissimo solo ai locali e a qualche amatore sparso per l’Italia. Mi faccio (ri)spiegare, ché sulla vicenda già picchiò duro Report: “Per la legge – mi dice Francesco Corigliano, il proprietario, discendente di una famiglia ch produce olio da sessant’anni – è sufficiente che l’olio extravergine abbia lo 0,8 per cento di acidità. Ottenuta non importa come. Dunque quello che compri al supermercato può essere costituito dal 10 per cento di olio davvero extravergine e il 90 di olio lampante rettificato”. Cerco di mitigare l’ignoranza: che è l’olio lampante? “L’olio extravergine profuma, quello lampante puzza. Lo si ottiene dalle olive cadute a terra naturalmente, senza battere l’albero. Hanno iniziato a fermentare, sono molto più acide. Ma basta purificarle con solventi chimici”. Nascono così gli extravergine a 3 euro per bottiglia, quando quelli come Corigliano – tre dipendenti in tutto, dodici durante la raccolta –  devono venderli almeno al doppio per andare in pari. Domanda: e quelli che scrivono “olio italiano” sull’etichetta? “Vale la norma dell’olio lampante, è sufficiente una percentuale. Il resto magari è turco, spagnolo. Anche quello biologico. Certo, ci fosse il marchio Dop..:”. E c’è? “Qui no. Qui amiamo dividerci. Nessuno si consorzia, tutti giocano per sé. Si tira a fregare l’altro. Se il Parmigiano non avesse un consorzio, se lo mangerebbero solo in Emilia. Per il marchio Dop però era fatta, poteva essere un punto di partenza. Poi è cambiata la maggioranza in Provincia e ci hanno detto che non potevano sposare una causa della Giunta precedente. Non ci finanziano più, si ricomincia da capo”. Chi governa ora? “Il centrodestra”.

Pagato il tributo testimoniale al porto di Gioia Tauro, nel quale si entra in macchina con estrema facilità nonostante i due casermoni di Carabinieri e Polizia parcheggiati ai lati dell’ingresso, discendo verso l’imbuto anarchico di Palmi, in fondo al quale un vigile tenta di sciogliere un ingorgo cominciato probabilmente nel ’78, e poi verso Seminara, nella Piana, tappa finale della giornata alla ricerca della Calabria felix.

E’ lì che trascorre l’estate l’unico autore satirico di destra autoproclamatosi tale: Natalino Russo, ex bancario, ex barista, ex dipendente dell’Aci, che a quasi sessant’anni ha cominciato a bombardare siti Internet più o meno famosi con le sue battute: “Se Berlusconi diventasse re, lo chiamerebbero ‘Sua Altezza Irreale”. “Il collezionista di monete dicesi numismatico, se invece colleziona patacche dicesi Nomismatico”. “Difficile sostituire Luttazzi, nessuno sa farne le feci”.

Com’è ovvio, Natalino ha subito raccolto un certo successo. Prima gli hanno dato una presenza fissa su Tv7, il magazine del Corriere della Sera. Che ha chiuso, purtroppo. Oggi impreziosice Eva Tremila con alcuni arguti calembour sui vip. Senza contare la quotidiana presenza su Dagospia, il sito di gossip e controinformazione che ne ospita gli exploit nella sezione delle lettere. Sul mio blog, avevo cominciato a citare le sue gag in una rubrica dal titolo piuttosto eloquente: “Il luogocomunista”. Se n’è accorto e, convinto che fosse un omaggio, ha cominciato a frequentarlo e a lasciare commenti in difesa di Berlusconi, contro Prodi e contro Stalin. Che ai suoi occhi sono sostanzialmente la stessa persona.

Dopo due settimane era peggio di Pearl Harbour: come già era accaduto nel sito assai più celebre di Sabelli Fioretti, il blog è diventato una rissa continua tra chi dava del decerebrato fascista a Natalino, e quelli che rispondevano accusando gli interlocutori di essere impotenti comunisti: Natalino medesimo.

Ora sono qui, per implorarlo di smettere. E farmi spiegare ‘sta satira di destra.

Nella piazza del paese, 2500 anime che diventano 15000 a Ferragosto per via che gli emigranti tornano a festeggiare la Madonna dei Poveri, Natalino mi accoglie con entusiasmo. Provo a pagare un caffè, ma mi spiega “a certe regole di ospitalità non ci si può sottrarre”. E la regola è questa: lui mi prende in ostaggio per quattro ore, per l’intervista si vede.

La prima tappa è un’emozione vera, la visita all’unico lettore dell’Unità di Seminara: Vincenzo Latino. Ha 81 anni. E’ il barbiere del Paese da mezzo secolo. Meglio: lo è stato fino a dieci anni fa. Ma da allora non smette di aprire bottega tutte le mattine. Spolvera, si siede su una delle poltrone bianche e rosse, e legge. “Non ho perso una copia dal ’45 – mi dice, impastando italiano e vernacolo – era direttore Togliatti. E ne ho pagato le conseguenze. Saranno stati gli anni ’50: un politico Dc mi additò durante un comizio. I clienti smisero di venire perché avevano paura di farsi servire dal comunista. Provai in un Comune vicino: sei chilometri a piedi tutti i giorni. Ma lì si mise di mezzo il prete. Finì che non avevo neanche i soldi per comprare le sigarette. In più avevo due fratelli partigiani: un’aggravante”.

Latino è la tua storia incarnata, o almeno come ti piacerebbe che fosse. Con l’Unità si è alfabetizzato prima, erudito poi. Ha una faccia, un tono, una moglie – bella ora, da giovane doveva essere un bouquet di fiori – che ti mettono allegria nel cuore. E ha tirato su otto figli, mentre quelli lo boicottavano. Gli chiedo cosa vede guardando attraverso la vetrina. Mi risponde che passano molti giovani, e che a quei giovani non frega niente della politica.  Poi mi chiede di dove sono. Bologna, rispondo. “Allora avete conosciuto Dozza…”. Magari, verrebbe da rispondergli. E raccontargli quella città vetrina che vetrina non è più. Ma il mio Cicerone ha fretta, vuole mostrarmi un bar che produce biscotti tipici. Quasi non riesco a salutarlo, Vincenzo. E allora lo faccio qui: è stato davvero un onore conoscerti.

I biscotti in questione si chiamano pitte e li produce il bar dei fratelli Zagari. Avevo promesso di scriverlo. Non posso  inoltre non accennare  (non posso: chiaro?)  alle friselle della panetteria che sta nella piazza principale, delle quali ricevo opportuno omaggio. E, anzi, vorrei cogliere l’occasione per segnalare che il Bar Sport di Seminara fa un ottimo caffè. Mi spiace solo non ricordare il nome della coppia madre-bambino – il figlio forse si chiamava Giovannino, ma non ci giurerei – che sta in veranda e che Natalino mi obbliga cordialmente a fotografare. Prima di spostarci da un ceramista suo cugino: “Devi scrivere –  mi dice– che sei entrato nella bottega di Domenico Bitto, e che i tuoi occhi sono rimasti incantati”. Eseguo. Perché le ceramiche di Bitto sprigionano decoro, arte, fatica. E anche perché sono ormai incapace di opporre la benché minima resistenza.

Natalino è un ciclone. Nel giro di pochi minuti, e a ritmi crescenti, tenta di fare sposare il mio bimbo di tre anni con la figlia di un facoltoso olivicoltore del posto; mi rivela che pur essendo di destra apprezza l’ex sindaco Costantino, ds, oggetto quando era in carica di numerosi attentati della ‘ndrangheta; mi racconta che una volta in chiesa ha raccolto i fondi per far rimpatriare la salma di un bracciante bulgaro abusivo; si vanta di aver scritto una poesia più corta del “M’illumino d’immenso di Ungaretti”; sostiene che un suo componimento sta al museo dello Shoah; mi declama un poemetto in cui il lungomare di Reggio fa rima con egregio; rievoca la serata nella piazza di Seminara in cui prese più applausi di Alvaro Vitali; mi racconta di aver gabbato un vecchio amico diessino raccontandogli la stessa barzelletta (quella del sub eccezionale e del sub normale: la sapete, no?) prima su Craxi e poi su Berlinguer. E quello ha riso solo la seconda volta.

Beh, ci ha provato anche nel mio blog, a fare il doppio gioco sotto mentite spoglie. Ma l’hanno scoperto subito e ricoperto di insulti. Nonostante questo, quando ormai in piena notte mi libero del rapitore, dopo una cena con vista autostrada naturalmente a sue spese, mi sorprendo a pensare che nella sua mitomania ipercinetica, il Seminara – perché così si fa chiamare, Natalino – sia in fondo un buon diavolo.

In fondo pure lui è calabrese. Dunque ottimista. Quasi dimenticavo: Natalino, e la satira di destra? “E’ quella che si fa a 360 gradi”. Finalmente una battuta eccellente.

 

Una cartolina per Laura Boldrini

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Gentile dottoressa Boldrini,

la presente per significarle che, tacciando di sessismo l’arcinoto sketch di Virginia Raffaele a Ballarò, lei ha platealmente esorbitato dai doveri che la carica le assegna.

Segnatamente:

In quanto editore della Rai (che è espressione del parlamento) ha messo in atto, per tramite della medesima, un atto intimidatorio nei confronti della rete e della testata che la ospitava.

Approfittando della sua carica, ha né più e né meno utilizzato gli stessi temi, lo stesso linguaggio e le stesse pressioni indebite, che Silvio Berlusconi mise in atto durante l’editto di Sofia.

Ha ammantato con una presunta rivendicazione femminista (come se la Raffaele fosse un pupazzo di uomini complottisti) un banale tentativo di interferenza politica, che non era stato richiesto per analoga imitazione svolta appena una settimana prima ai danni di Francesca Pascale.

Infine, ed è questa forse l’accusa più intollerabile, per una volta nella mia vita mi ha costretto a essere d’accordo con Beppe Grillo.

La satira è satira.

Lo sketch non coglionava la ministra in quanto donna ma in quanto citofono fuffoso di Renzi. Ma anche se fosse andato oltre, non sta alla Terza carica dello Stato (o a un membro della Commissione di vigilanza, del Pd, che chiede provvedimenti) sindacare su cosa sia giusto o no mandare in onda.

Perché anche se viene da una donna e da una persona dabbene, questa si chiama censura.

La saluto cordialmente e la invito a una frugale colazione quanto prima, durante la quale – come promesso – le regalerò il laserino verde per accecare Di Battista quando le balla il tip tap sugli zebedei.

Con viva cordialità

Luca Bottura

Riposare. In pace

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Ieri un imprenditore si è ucciso per la disperazione.

Non è il primo, non sarà l’ultimo. L’Italia è un Paese economicamente alla deriva. Chi ha rischiato in proprio si ritrova spesso, drasticamente, nel mezzo di una strada che conduce a un muro. E, rispetto ai dipendenti, non può contare su alcuna rete di protezione.

L’imprenditore era padre di un consigliere regionale del Movimento Cinque Stelle.

Comunicando la notizia, il blog di Beppe Grillo ha parlato di Omicidio di Stato. E ha definito i colpevoli di quanto accaduto, Assassini di Stato.

Senza entrare nel merito della vicenda (lo Stato ha molte colpe, quasi quante, in altri casi, ne hanno avute ad esempio gli usurai) mi limiterò a osservare tre cose:

1) Purtroppo i suicidi per povertà sono una caratteristica del mondo occidentale dalla quale non sono esenti i salariati, specie quelli a tempo determinato.

2) L’eloquio “Omicidio di Stato” e “Assassinio di Stato” prevede, tecnicamente, una guerra civile in risposta.

3) Un anno fa a Perugia uno squilibrato sparava a due dipendenti della Regione.

Se è possibile, una certa attenzione al lessico potrebbe risultare utile.

Un pensiero, un altro ancora, all’imprenditore così solo e disperato da farla finita.

E un’ultima considerazione: siccome lo Stato siamo noi, significa che in quella morte siamo tutti coinvolti. Da chi non ha saputo garantire una gestione umana del debito – nel caso fosse appunto nei confronti dello Stato – a chi non paga le tasse e riduce risorse per gli ammortizzatori sociali, ben più presenti in Paesi diversi dal nostro.

Sarebbe ora che imparassimo a prenderci le colpe, senza pensare che basti urlare più forte per sentirci assolti.