Su Civati, la musica e lo Stato Sociale (nel senso del gruppo)

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Per un periodo ho pensato che Pippo Civati* fosse il futuro della sinistra. Perché ne penso, di c***te. Altrimenti mica tiferei Bologna.

Per un altro periodo ho pensato che Pippo Civati fosse un intollerabile ******e, perché poteva essere il futuro della sinistra e invece si era accontentato di fare il box di pagina 4 su Repubblica, tipo una volta ogni due settimane, più o meno quando Renzi dichiarava guerra alla burocrazia e alla Kamchatka e lui, Pippo, dichiarava che no, allora stavolta me ne vado dal Pd, e poi due settimane dopo era ancora lì.

Siccome però sto invecchiando, ho imparato ad accontentarmi. E allora oggi so cos’è Pippo Civati: un ottimo critico musicale. Si deve a lui, ai suoi follower su Twitter, il boom che ha portato Lo Stato Sociale davanti a Pharrell Williams nella classifica di I-Tunes. Che poi non so mica se è vero: è scritto su Wikipedia, e spesso Wikipedia scrive c****te, perché dev’essere di sinistra pure lei. Però il dato è certo: quel pezzo, C’Eravamo Tanto Sbagliati, è proprio bello forte. E Civati l’ha consigliato. E aveva, ha, ragione.

Trattasi di invettiva ironica. Una base di chitarra, un ‘fanculo biascicato come introduzione, una lunga lista di bersagli anche satirici, anche politici, tra i quali però spicca anche “chi s’innamora sempre per secondo”. E’ un programma politico. Conosco uno a cui farebbe comodo.

Allora ho pensato: ne scrivo. E ne scrivo benone. Ho risposto all’ufficio stampa de Lo Stato Sociale, che mi segnalava la loro estasi produttiva, e un secondo singolo imminente, chiedendo di ascoltare il resto dell’album. Ma lei, la signora ufficio stampa, mi ha cortesemente consigliato di rinviare il tutto a dopo l’uscita del disco, per ragioni commerciali (comprensibili: le etichette discografiche, pure quelle Indie, non sono di sinistra. Quindi sanno comunicare).

Solo che io non avevo voglia di aspettare. E ho cominciato un pezzo su Minghi inviato a San Pietro, credo per “La vita in diretta”, a raccontare la beatificazione dei Papi. Era pronto pure il titolo: “Tengo un Minghi tanto”.

Ma non avevo fatto i conti con Sio.

Sio è semplicemente il miglior cartoonist italiano. Me l’ha fatto scoprire mio figlio di 11 anni. Vive in Giappone (Sio, non mio figlio) e compone brevi corti animati che, con tratto infantile e testo invece pure, disintegrano i tutorial, le recensioni, il fate girare. E’, a mia futile memoria, il primo esempio di rete che smonta la rete da dentro. Un fenomeno. Da milioni di visualizzazioni.

Lui, Sio, ha creato il video del secondo singolo degli Stato sociale: Questo E’ Un Grande Paese. Che è stato pubblicato (pubblicato, non rilasciato, come scrive qualcuno: mica era ostaggio di Al Qaeda) il giorno in cui avevo quasi finito il pezzo su Minghi.

Ed è un video bellissimo. Di un pezzo bellissimo. La sintesi felice tra un manifesto di governo, un autodafé ironico, qualcosa di buono, un gioco e del cioccolato. C’è Piotta che ci mette la voce. C’è Max Collini degli Offlaga Disco Pax che ci mette i ricami. C’è l’Italia dai trentenni che conoscono la loro condanna – essere giovani fino a 50 anni, sorbirsi l’eterno albertosordi che alberga in noi, la fascinazione per i renzusconi, o i berlusconzi – e la esorcizzano ripetendo il mantra “Se magna be’, se beve be’, si sta yeah yeah”.

Se Gaber creò il teatro-canzone, Lo Stato sociale ha creato il teatro-cazzone. Che dice cose altrettanto argute senza mollare lo spritz d’ordinanza. Su pratica base dance, perché “una volta qui era tutto champagne”.

Ca*zo Caspiterina, che bravi.

Ah, a proposito: daje Pippo. E’ ora.

Uscito su Sette

 

Quel giorno in cui mio figlio non diventò tifoso del Bologna

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Questo articolo è uscito sul blog del Corriere di Bologna un annetto orsono. Oggi l’ho letto in radio per raccontare come mai non torno più allo stadio da tempo. Mi è stato richiesto. Eccolo.

 

Qualche mese fa mi è capitato un diverbio con alcuni ultrà del Bologna (che, per inciso, è la mia unica religione). Mi amareggiò molto. Scrissi un pezzetto liberatorio che però decisi di tenere nel cassetto perché mi sembrava troppo retorico. Forse lo è. Ma siccome una battuta su certi striscioni apparsi al Dall’Ara, quelli sulla Juve e sui suoi morti, ha rinfocolato le considerazioni di chi, anche amici, anche molto urbanamente, mi rimprovera di non capire le logiche della curva – e sì, limite mio, forse alcune proprio non le capisco – ho deciso di postarlo adesso. Siate clementi.

Domenica scorsa ho portato mia madre alla trattoria del Meloncello: passatelli, friggione, quella roba lì. Avevo lasciato la macchina in Certosa per andare a trovare mio padre, e nel passeggiare per riprenderla siamo passati davanti allo stadio.

Non ci vado da anni, allo stadio. Un po’ perché la domenica devo vedere la tv per scriverne, un po’ perché scroccare la tribuna stampa senza dover (più) lavorare mi incupirebbe.

L’ultima volta che ho assistito a una partita dal vivo era in Scozia, quest’estate. Volevo mostrare a mio figlio la magia del prato, da vicino. Magari per contagiarlo con la passione che mi pervade da sempre e che sembra non sfiorarlo. Ne ha altre, e tutte straordinarie. Ma il Bologna no.

Stavano (stavamo) per giocare contro il Pescara. E l’esterno dello stadio mi è sembrato bellissimo. C’erano molti bambini con la maglia rossoblù, tra l’altro. E io a un bimbo che tifa Bologna nel 2012, invece che Milan, Inter o Juve, non regalerei un ingresso ogni tanto. Gli darei l’abbonamento gratis. La divisa sociale. La foto garantita insieme ai suoi eroi. Una pergamena d’oro zecchino. E mentre tornavo verso l’auto attraversando il cimitero, e incontravo gli altri tifosi che passavano tra le tombe chiacchierando in dialetto di quanto sia forte Diamanti e un po’ meno forte Agliardi, lui, il piccolo, ha pigolato una frase meravigliosa: “Babbo, quando mi porti allo stadio?”.

Domenica prossima, gli ho detto. E anche se sapevo che forse lo faceva per me, perché credeva mi gratificasse, sono andato a casa rinfrancato. Magari stavolta si divertirà, pensavo. E pazienza se dovrò tappargli le orecchie perché il sottofondo delle partite è spesso odioso, gravido di ostilità, lontano millanta miglia da quel che un bambino dovrebbe percepire del calcio.

Verso le sei, già avevo esultato per Gilardino e sacramentato per Quintero, ho visto in rete una foto della curva Andrea Costa. In mezzo alla quale campeggiava uno striscione in caratteri squadrati che parlava di difesa dell’onore e altri concetti piuttosto vacui e piuttosto nostalgici. Allora ho fatto una cosa imprudente: l’ho postata su Facebook aggiungendo che ci meritiamo tutto.

In pochi minuti è partita una lunga sarabanda di gente che mi spiegava la topica che avevo preso, che con l’estrema destra quei caratteri non c’entrano nulla, che li usano tutti gli ultrà, che sì però le foibe, che sono un coglione, che loro sono apolitici. Gente che sulla propria bacheca faceva il saluto romano, “ma come gag”, o mostrava immagini dello sbarco di D’Annunzio a Fiume. Altri mi hanno spiegato che sono un imbecille perché non capisco la mentalità della curva, che noi “giornalai” – fresca, questa – dobbiamo smetterla e “magari ne parliamo di persona”, che se lo striscione non mi piace devo andare a strapparlo “in balaustra” e comunque se non sto attento faccio la fine di un cronista che fu menato. La discussione si è poi trasferita nei forum appositi, con toni anche più accesi.

Ora, l’occasione mi è grata per ribadire ciò che ho spiegato ai miei critici online: è ora che facciate pace con voi stessi. Gli striscioni neri, i caratteri runici, il cranio rasato, non sono estetica da swingin’ London: sono paccottiglia mussoliniana. Siccome c’è gente che è morta perché potessero essere espresse anche idee del menga, e anche perché la polizia tende a tollerare certa roba in curva perché non le capisce/non se la sente di intervenire, nessuno vi impedisce di esporli. Però assumetevene la responsabilità senza tendere il braccio e nascondere la mano.

Questo perché nel 2012 giocare a fare i fascisti si può, e non comporta alcun rischio. Anzi, spesso è un hobby borghese: altro che onore, antagonismo, retorica dei cani sciolti. Ma è proprio per quello, perché si può, che c’è gente come me ancora e profondamente antifascista. Perché, parafrasando la Buonanima, “certi nemici, molto onore”.

Mi spiace solo che il prezzo della vostra paraculaggine (siam tutti neri con lo striscione degli altri) l’ha pagato il mio bimbo. Perché oggi sono rimasto a casetta, e lui con me. Certi gentiluomini già avevano minacciato un cronista di questo giornale sui muri di fronte al Dall’Ara, senza che nessuno si sia mai preso la briga di cancellare quelle scritte, e questa patente intimidazione è passata in cavalleria nel silenzio di troppi. Avrei faticato a spiegare a mio figlio eventuali prodezze ai miei danni del gruppo vacanze Salò.

Magari, se vorrà, gli dirò tutto tra qualche anno. Gli farò leggere questo pezzo. E gli racconterò quella domenica di fine settembre del 2012 in cui battemmo 4-0 il Catania ma lui non diventò un tifoso del Bologna.

La guerra di Piero

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Non ho alcuna particolare simpatia per Piero Fassino. Lo ricordo ministro non particolarmente meritevole – meglio Bersani, volendo – e politologo menagramo: invitò Grillo a farsi un partito, se ci riusciva. C’è riuscito.

Fece anche alcune brutte figure davanti alle telecamere di Report (anche se temo le faremmo in molti, a dover difendere l’indifendibile).

Però oggi m’è proprio venuto da solidarizzare con lui.

Quel medio che gli è scappato davanti agli ultrà del Toro che lo contestavano solo in quanto “gobbo di merda”, e non per quello che stava dicendo in qualità di sindaco – l’onore e il rispetto per la Torino granata, la promessa di onorare Superga, e quella terribile storia, con gesti concreti – me l’ha reso sodale.

A me era capitato giusto la sera prima. Un tizio su Facebook mi aveva insultato (le solite cose: “i tuoi padroni”, “piddino”, ovviamente a “piddino” non ci ho visto più) e mi era sfuggito, in risposta, un motteggio sul fatto che poteva anche andarsene laddove lui, il suo amico Telespalla, e quell’altro che ne fa da ventriloquo, spediscono chiunque non sia d’accordo con loro.

Poi ho pure cancellato, non mi andava di usare lo stesso linguaggio. Allora lui l’ha ripostato, offeso, o irridente. Non ho capito bene. E io l’ho lasciato lì. Perché mi pare la plastica dimostrazione di un Paese in cui l’insulto gratuito è ormai la norma di ogni dialettica (di più sui social, ma è il messaggio che è il mezzo, non viceversa) secondo una curiosa regola d’ingaggio per cui c’è chi le deve sempre prendere e chi deve darle sempre.

Ha fatto male Fassino. Ho fatto male io. Un ruolo pubblico anche minimo ti obbliga ad accettare anche le critiche più grevi. Si chiamano social. Sennò te ne stai a casetta. E nessuno ti obbliga a fare il sindaco, se sogni l’unanimità. O a scrivere i tuoi pensieri su Fb.

Però ho capito una cosa: il potere degli ultrà (politici, sportivi, di qualunque campo) si basa su un equilibrio fragilissimo, e cioè sul fatto che qualcuno continui a mantenere due regole di convivenza civile nonostante gli piova melma addosso da ogni dove, spesso senza memoria e senza alcuna ragione specifica.

Quella stessa melma che fa comodo a chi lucra il proprio piccolo potere (appunto: politico, sportivo, in qualunque campo) sulla prevaricazione zozza del “tutti uguali”.

Il giorno in cui la Boldrini, a prescindere da ogni possibile demerito, risponderà “coglione ignorante” a Bonanno che le dà della stronza, temo purtroppo che farò la ola. Anche se io, nel mio piccolo, prometto di non rispondere più.

E comunque “tutti uguali” il cazzo.

Guida galattica per antijuventini

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Perché la risposta esatta non è 30, né 32. E’ 42.

Respira.

Fatto?

Come ti senti ora?

Niente?

Riprova: inspira profondamente, poi espira.

Com’è andata?

Ah. Il gatto è volato fuori dalla finestra come investito da un tornado.

Ok. Allora non c’è niente da fare. Sei antijuventino. E in questo momento hai dentro la forza di venti braccia, il calore di una rustichella dimenticata un’ora sulla piastra, l’anarchico sgomento di Matteo Salvini davanti al figlio adolescente che gli dice che sì, papà,quella Latifah è proprio carina e ci va ad abitare insieme. In Marocco.

Quando Matteo Renzi aveva parlato di gufi e rosiconi, su Facebook, avevi deriso il linguaggio da anni Cinquanta. Robaccia da ultrà. Ora però ti senti un incrocio tra una rapace e un castoro. Rosicheresti un’intera foresta. Volando. Di notte. Mentre dal cielo le stelle ti guardano. Tre.

Attento però. Non tutto è perduto. Il recupero di un minimo di autocoscienza, di autostima, anche solo dell’auto che non ti ricordi più dove hai parcheggiato, dacché hai saputo di Catania-Roma, è possibile. La psicologia può aiutarti. E se non lei, quattro mojito consecutivi dovrebbero andar bene.

Punto primo Non è la fine del mondo. Potrai sempre rifarti l’anno prossimo. Come? Tu intanto recupera il numero di  Genny ‘a carogna.

Punto secondo Sposta la tua attenzione. Pensa a Conte. Immaginalo la notte del Benfica mentre indica l’orologio e invoca un recupero a oltranza. Ora immagina che sia ancora lì, a luci spente. Non basta? Concentrati su Moggi che arriva all’Olimpico, la stessa sera, twittando la propria immagine con scopi apotropaici. Vedi? Stai già meglio.

Punto terzo Pensa ad Andrea Agnelli costretto per il resto dei suoi giorni a guidare una Fiat Idea. Non succederà, ma… ecco, così. Sorridi.

Punto quarto Buffon e la Seredova. Lei è la più bella donna del mondo ma lui le ha preferito quell’altra. Ora immaginatelo mentre, dopo la prestazione sul campo (quello) lei gli impone la flash interview col commento di Massimo Mauro e si lamenta perché non ha nemmeno fatto i minuti di recupero.  Stai quasi ridendo.

Punto quinto  La vita può proporti ben altro. Un amore vero, il primo Magnum della stagione, il sorriso della tua mamma, l’autostrada sgombra alle prime luci del mattino, una birra con l’amico caro che non vedevi da tempo.

Rilassati, prendila comoda. Non è il momento di soffrire: sei ancora giovane, sei ottimista, sei…

Ah, tifoso del Bologna.

Come non detto.

Scusa.

Ciao.