Minuzie musicali sul Ventennio (e chi se ne frega)

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Permettete che vi porti negli anni Trenta?

No, non politicamente. Politicamente viviamo già un decennio prima, intorno al ’22.

Musicalmente, intendo.

Permettete anche che sdogani un autore fascista? Se non permettete, è tardi. Ho già cominciato.

Anche se “fascista” è una parola grossa, e lo dico principalmente alla mia tessera dell’Anpi che già sfrigola in tasca. Perché il tizio di cui vado a narrare scrisse sì canzoni contro le sanzioni al regime, contro la perfida Albione (cioè, lo dico per Matteo Salvini, il Regno Unito) e inneggiò al Duce per interposto gorgheggio. Ma l’orbace gli stava stretto. Così stretto da regalargli un tonalità tutt’altro che maschia, tutt’altro che italica, tutt’altro che irrevocabile.

Però Rodolfo De Angelis, musicista, autore, scrittore, pittore, satiro – nel senso urticante del termine – era principalmente futurista. E come altri coevi ambiva a piallare le convenzioni. Così, profittando del giogo piuttosto largo che il mascellone dapprincipio lasciò alla satira (su carta c’erano il Travaso, il Becco Giallo, il Marc’Aurelio, il Bertoldo) elaborò una via laterale che lasciava al paradosso una doppia chiave interpretativa. Gradita al gerarca e al gerarchizzato. Un po’, volendo fare un parallelo con la modernità, come il Checco Zalone e la sua maschera da arci-italiano che risulta amata trasversalmente da Berlusconi a Vendola: il primo la apprezza perché è come lui, il secondo perché crede che metta alla berlina quelli come Berlusconi.

Rodolfo De Angelis è raccolto in due album (“Ma cos’è questo De Angelis”) che fanno il verso al suo brano più celebre, “Ma cos’è questa crisi”, spesso usato, oggidì, come colonna sonora al grandguignol de La Zanzara su Radio 24. Le sonorità talvolta quasi affaticano. Spiazzano. L’intepretazione è nasale, il ricorso all’onomatopea (quella di Zang Tumb Tumb) insistito. Ma alla fine, con un po’ di pazienza, ci si ritrova al centro di quella fusione riuscita tra teatro, cabaret, satira proto-populista che vide in Petrolini l’incubatore e nel Bagaglino l’agenzia funeraria.

A fallace parere del vostro recensore per caso, il colpo di genio assoluto è “Addio canzoni americane”, laddove – per salutare le intemperanze sempre più feroci del Minculpop di Starace – si obbedisce all’autarchia musicale con un pezzo gershwiniano, tutto a stelle e strisce. Ma spicca anche “Una volta non c’era Mussolini”, che sembra omaggiare il megalomane romagnolo, ma intanto ne elenca una via l’altra le storture. Su musica ballabile, per sovrammercato. Idem per “E se non fosse vero”, dove tra l’altro, mentre Mussolini inneggiava alla guerra come igiene del mondo, De Angelis si chiede se davvero la corsa alle armi salvaguardi la pace.

Dopo la guerra, il nostro divenne giornalista. Vellicò il proprio talento pittorico. Smise di gorgogliare ironia. Per l’etichetta nera che gli creava una cattiva atmosfera e perché – paradossalmente – l’Italia del dopoguerra, quella che mandò Giovannino Guareschi in carcere per oltraggio al presidente della Repubblica, gli avrebbe forse consentito minor cabotaggio rispetto al periodo in cui poteva esibirsi come buffone di corte, barcamenandosi tra la Discoteca di Stato, uno sfottò alle camicie nere, e un inchino alla moralità muscolare in cui il Futurismo s’era trasformato.

Però faceva ridere, De Angelis. Era innovativo. E nei suoi testi la condanna all’italianità (cioè al “come eravamo”: esattamente uguali ad ora) gracchia ancora chiara e forte.

Per questo dovreste ascoltarlo.

 Uscito su Sette

5 pensieri su “Minuzie musicali sul Ventennio (e chi se ne frega)

  1. Manuel

    In queste parole ritrovo tutto il limite della satira come strumento di lotta o anche solo di influenza sociale. Il giullare funzionale al re? No, il giullare è ininfluente. Questo libera gli artisti da qualsiasi peso e responsabilità sociale. Divertitevi.

  2. Oreste

    @Manuel, non concordo! È il divertimento stesso che ha una funzione sociale. Il cazzaro smonta, schiarisce e sveste. Aiuta a prendere e a prenderci un po’ meno sul serio -ce n’è davvero bisogno- e restituisce alle cose e ai fatti una dote oramai estinta: la loro reale dimensione.

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