Lettera da un coglione a un presidente

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La conferenza stampa di Draghi, oggi

(ANSA – NAZARETH) Mario Draghi subito prima della consueta sgambata sulle acque del Tevere

Caro presidente Draghi,

lasci che mi presenti: sono un coglione.

Chieda in giro, glielo confermeranno. Magari per motivi diversi da quelli che sto per elencarle. Ma poco importa.

Sono un coglione che ha preso multe, come tutti. Ha fatto casino con qualche versamento, come tutti. È stato inseguito per versare imposte che riteneva non dovute, come tutti. Ha persino subito qualche comportamento dello Stato che riteneva in patente malafede.

E ha sempre pagato.

Intendiamoci: sono un coglione fortunato. Ho sempre avuto il denaro per farlo. Magari l’ho distolto da attività “di necessità”. Anche se… cos’è poi cos’è la necessità? Chi può dirlo? Io avrei necessità di comprare il Bologna per far giocare De Silvestri solo nel parcheggio. Ma non so se la Finanza me la passerebbe.

Lei sì. Lei ha detto che se dieci anni fa avessi deciso che una mia qualunque necessità valeva il mancato pagamento delle tasse, avrei fatto bene. Perché oggi, ove l’avessi fatto, lei mi avrebbe appena detto che anche stavolta “scurdammoce o’ passato”. Poi, per carità, nel comunicarlo lei si è costernato, si è indignato, si è impegnato. Ha detto che va riformata la riscossione. Ma intanto ha gettato la spugna con gran dignità. Ha condonato. Sta per condonare. Sta per confermarmi che sono proprio un coglione.

E sa cosa, presidente? Che non va riformata la riscossione. O non solo quella. Va riformata la testa degli italiani. Va detto loro, andava detto, che siete davvero diversi. Che non si crea il ponte per l’ennesimo condono. Il prossimo. Anche quello, ovviamente, l’ultimo. Anche quello, di necessità. Colpa dei governi precedenti. Ma d’ora in poi…

Ma va bene, presidente. Va così. Almeno nella sua conferenza non c’era Casalino a fare da quinta e ad aver preparato la scena con qualche whatsapp. Però, ecco, ove avessi potuto farle una domanda le avrei chiesto una cosa sola: bravi tutti, bravo Elio, bravo Mario… ma nella giornata delle mafie, quand’è che facciamo sul serio? Perché sa, presidente, tra gli evasori di necessità che non pagheranno ci sarà certamente chi prendeva anche il Reddito di Cittadinanza e che ci stritola ogni giorno ché considera lo Stato, cioè Lei, ma anche tutti noi, una vacca da mungere.

La verà emergenza del Paese. Il primo tentacolo da recidere se si vuole ripristinare una sorta di legalità percepita.

Anche a loro, stasera, abbiamo detto “condoniamo, è da tanto tempo che non lo facciamo”.

E, diciamo, noi coglioni siamo un filo delusi.

Buon lavoro.

Scissione e liberazione: perché il Pd e Italia Viva dovrebbero separarsi per davvero

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Tra Renzi e Zingaretti | Il Foglio

(ANSA – KODAK THEATRE) Zingaretti e Renzi quando vinsero l’Oscar per il miglior sorriso fasullo

Me lo chiedeva l’altro giorno Michele Serra in radio e non ho saputo dargli una risposta: ma perché nel Pd c’è una corrente renziana? In effetti: avendo Renzi un partito, come mai ci sono persone a lui afferibili in un altro? Michele, che ne sa molto più di me, ha escluso ciò che a me parrebbe ovvio: per condizionare due forze politiche in un colpo solo, uno delle quali da fuori, quindi con un maggiore peso contrattuale, in attesa di rientrare nel principale con la fanfara. Almeno nei desiderata.

Però, se la cosa sembra curiosa lui, figurarsi a un cacadubbi come il sottoscritto.

Causa recenti evenienze personali, che ho riassunto qui, voglio però evitare qualunque critica anche solo apparentemente distruttiva, anche perché mi pare che sia il Pd, sia Italia Viva, stiano perseguendo l’implosione con una pervicacia che non abbisogna di appoggi esterni. Dunque mi sforzerò di essere propositivo e di pronunciare una parola che nel campo della cosiddetta Sinistra, ove la si consideri tale anche in questa evenienza, ha spesso risuonato con esiti nefasti: scissione.

Perorandola.

Spiego: esiste nel Pd, se ho ben inteso, una cosa che si chiama “Base riformista”. Che non è di base, dacché non risulta sia minimamente popolare tra gli elettori. E non è riformista, ma sostanzialmente turbo-liberista e perfettamente aderente al progetto di Sinistra del Centrodestra che Italia Viva ha da tempo messo in atto. Base riformista è la responsabile principe di quello che potremmo definire l’incommensurabile puttanaio attuale. E questo al netto dei giudizi sulla vicenda di Nicola ZIngaretti, per la segreteria del quale, come credo chiunque, nutro la stessa passione che per un Bologna-Fanfulla 0-0 dell’84.

Il risultato è un partito oltre la crisi di nervi, in cui si gioca con le poltrone, anche accusando altre di puntare alle poltrone che si occupano al momento, e un altro partito che nei sondaggi viaggia costantemente alle temperature di Novosibirsk in dicembre.

La domanda di bassa politologia è appunto questa: davvero il Pd perderebbe qualche voto se quelli di base riformista se ne andassero? E, di contro, Italia Viva guadagnerebbe o no da una momentanea iniezione di deputati e da qualche uomo in più che magari sollevi sul cosiddetto territorio, battendo le fabbriche un ufficio del proprietario via l’altro, qualche consenso in più?

La dico ancora meglio: perché lasciare alla Lega la cosiddetta classe produttiva del Paese? Italia Viva non è concorrenziale con nessun partito di sinistra della galassia. Ma tra i due Mattei, ci sono sicuramente fior di imprenditori che sceglierebbero Renzi. Di più: magari lo farebbero pure votare. Togliendo consenso non già a quei pericolosi comunisti del Pd, ma proprio a Salvini.

Dunque, se ne gioverebbero tutti: il Pd potrebbe leccarsi le ferite, magari aprendo ‘sto cazzo di discussione programmatica davvero a chiunque, rifondarsi, fare un congresso allargato domani perché altrimenti non arriva vivo alle elezioni, e Italia Viva rischierebbe addirittura di non essere azzerata alle prossime elezioni politiche. Che, siccome si faranno con una legge comunque di deriva proporzionale, spingerebbero inevitabilmente alla scelta tra un asse Cinque Stelle Dedibbizzato, il Pd, la cosiddetta sinistra radicale (che non è radicale e forse per quello raccoglie poco) e il gruppo vacanze Visegrad.

A quel punto Renzi potrebbe decidere il miglior offerente, fingersi paciere, lucrare quel ruolo centrale che tanto ama, e quantomeno sostituire Di Maio agli Esteri. O passare definitivamente al lato oscuro della forza, come vorrebbero alcuni suoi consiliori economici che infatti flirtano pubblicamente tra Borghi e Bagnai.

Tra l’altro, dato il congelamento imposto dall’agenda Draghi, il Governo non ne risentirebbe punto.

Morale: Renzi vuole ancora scalare il Pd, ma non lo vogliono né il suo elettorato, né quello del Pd. Potrebbe più facilmente scalare Forza Italia, o la base leghista, invece di camminare a fianco di Salvini. A meno che non sia proprio quello il progetto in atto, e che il prossimo #staisereno non sia per l’ennesimo tizio che si sta fidando di lui.

Intanto, ecco, se state insieme ci sarà un perché. Ma è dentro di voi. Ed è sbagliato.

La mia lettera di scuse a Giorgia Meloni

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Risultato immagini per meloniOggi, se avessi un giornale su cui farlo, scriverei una lettera a Giorgia Meloni.

Le racconterei di come sentirLe dare della scrofa da un signore che appartiene al mio album di famiglia mi abbia ferito come se l’avessi fatto io.

Le ribadirei la solidarietà per le parole sessiste (e classiste) che le sono piovute addosso da un barone, chiedo venia, che crede di conoscere chi lavora perché ci va a comprare il pesce. Dunque pare non abbia grande empatia per gli umili che dovrebbe in qualche modo rappresentare e, per traslazione, neanche per mio padre ferroviere e mia madre prima contadina e poi operaia.

Al bar Casablanca.

Direi che non m’importano le querele temerarie che ho sul groppone da parte di Fratelli d’Italia o altre modalità meno dirette di intimidazioni giudiziarie: certe battaglie di civiltà non hanno bandiera, non hanno colore, non hanno tempo. Non hanno appartenenza.

Spiegherei che poi non è un caso, o almeno non sembra più esserlo, se il partito che un tempo, in parte, mi rappresentava, si dimentica non tanto di inserire donne del Governo, ma soprattutto di condividere pari opportunità di carriera politica senza che debbano per forza attaccarsi al carro, o a più carri, antitetici, sempre guidati da un maschio.

Le direi: Giorgia, scusaci.

E aggiungerei che adesso è il momento per farli insieme, certi percorsi. Che valgono allo stesso modo per le Boldrini, le Segre, le Boschi. Ché per fortuna l’orologio della Storia va avanti: io stesso feci vignette che all’epoca mi sembravano niente più che un calembour politico, su Meb, ma erano sbagliate non per la malafede, che non c’era, ma perché incidentalmente insistevano su un aspetto di genere. Che va considerato anche quando si fa satira.

E concluderei, senza metterci un “però”, prima, che c’è anche un clima complessivo da cui uscire. Un clima di odio sistematico che investe categorie ritenute altre dalle proprie. Siano esse donne, stranieri, lavoratori, avversari politici, i cosiddetti “buonisti”. E che quel clima, da una ventina d’anni, è infinitamente più radicato nel campo politico dal quale la Meloni viene. Sul quale Meloni e Salvini hanno lucrato. Perché le parole sono pietre. O possono diventarlo. Ed è sempre un bel giorno il giorno quello in cui ce ne si accorge.

Festeggerei insomma una presa di coscienza del tema. Del liquame identitario, di un’identità qualunque, basta che sia contro qualcuno, che ha avvelenato i pozzi di questo Paese. Della violenza verbale per il consenso usata con troppa leggerezza. Su molti fronti, ma su uno in particolare. Direi che da oggi nessuno potrà mai più insultare Meloni perché donna, per come si esprime, perché non si condividono le sue idee dacché persino l’Anpi (l’Anpi!) le ha espresso sincera solidarietà.

Se dal letame nascono i fior, questa vicenda rappresenta in nuce una catarsi. Il giorno in cui la più amata dagli italiani disse che per essere italiani migliori l’odio non serve. Ripartissimo da qui, non sarà stato un sabato inutile.

E mi scusi, ci scusi ancora.

Questo, se avessi un giornale su cui farlo, scriverei.

Una riflessione noiosa su social, doping, Schwazer e meraviglie della radiofonia

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Risultato immagini per mentanaAnni fa, alla presentazione dei palinsesti de La7, Geppi Cucciari introdusse così, ai giornalisti presenti, Enrico Mentana: “E ora un uomo che è un vostro collega ma crede di essere un MIO collega”. Era un omaggio irriverente alla nota passione dell’uomo per la battuta, che frequenta da sempre in ogni luogo e in ogni lago. Siccome però gli anni passano, le mamme imbiancano, le maratone consumano, stamane a Forrest, con LaLaura, la stessa identica persona si è prodotta in un elogio della riflessione che ha appena sostanziato con un podcast e con l’approdo del suo quotidiano, Open, su Twitch.

Ora, lasciamo perdere che io Twitch manco so cosa sia, tanto che ne ho fatto appunto battuta (“Studio Aperto sta per sbarcare su Tinder”) ma mi ha colpito, nella riflessione mentaniana sulla parola ragionata, un dato oggettivo: Twitter è vecchio e, più in generale, i social basati sul “qui e ora” stanno invecchiando molto precocemente. Mentre la cara e vecchia tradizione orale – pensate, né io né Mentana abbiamo ceduto al doppio senso – rimane necessaria. Come se avessimo bisogno di un racconto. Per capirci: Twitch, ma anche Clubhouse, altro non sono che costole della radio. Che è da sempre il mezzo più moderno. Perché a differenza della tv, è orizzontale. Assomma e non divide. Racconta, non spezzetta. Vive di curve e non di picchi.

Ogni tanto lo dico, al mattino, di quanto mi senta privilegiato ad aver conservato un angolo (e che angolo, e in che piacevole compagnia) di libera e quotidiana espressione. Ma fino ad ora avevo colpevolmente sottovalutato quanto sia decisivo e pervasivo il mezzo. Quello che in fondo amo di più. La radio, tra l’altro, ha un pregio enorme: contestualizza. Crea una sorta di immunità di gregge del pensiero, ove la si frequenti col dovuto rispetto, che salda un patto tra chi la fa e chi la ascolta. Non succederebbe mai, per fare un esempio di oggi, che qualcuno vada ad estrapolare un tuo vecchio tweet sul doping di Alex Schwazer (del quale oggi, tutti, festeggiamo la resurrezione) per anabolizzare il confronto, metterti al centro, additarti da eretico, esibirti all’insulto. Qualcosa che era vero anni fa non smette di esserlo ora che la catarsi è compiuta, che il diritto al riscatto di chi sbagliò è sopravvissuto al complotto di chi non voleva accettarne la redenzione.

ImmagineSi può aver usato sostanze illecite, si può (si deve) aver diritto all’assoluzione quando qualcuno, in un caso diverso, ha costruito prove contro di te.

Ma c’è un altro dato, forse più cogente. Io, quel tweet, non lo rifarei. Era probabilmente, un po’ come molti cinguettii, figlio di un altro doping. Quello del consenso. Tra i molti difetti mi riconosco una certa onestà intellettuale, al limite del masochismo da perdita del posto. Ma, come tutti, mi capita di scrivere qualcosa pensando di intercettare lo spirito del tempo. E, dunque, qualche consenso. Mi muovo anche io, come molti di noi, secondo regole che valgono solo per la rete e che mai adopereremmo in pubblico. Ché quando parli passano tutte le sfumature. Ma quando scrivi, è un attimo a salire in cattedra. Giudicare. Esagerare.

Dovrei essere amareggiato, per gli insulti che mi sono piovuti sul groppone per un vecchio tweet (nel quale peraltro me la prendevo pure con Paolo Rossi, citato come eroe negativo causa scommesse, uno che post mortem è risultato essere molto più che un bravo cristo). Invece alla fine sono quasi contento. Perché chiudono il cerchio iniziato la mattina ospitndo un altro “battutista” non dico pentito, ma riflessivo.

Risultato immagini per bottura radioDirò ugualmente le mie cazzate, le mie sciocchezze, scriverò ugualmente le mie battute (riuscite e no) armate solo dalla buonafede. Cercherò di capire cosa accidenti sia Twitch. Ma spero di continuare a crescere, migliorare, trovando alla fine un suono che mi somigli ancora di più. Anche per iscritto. Ché davanti a un microfono non mi spaventa quasi nulla. Anzi: davanti a un microfono, specie adesso che ho lasciato spintaneamente il giornalismo quotidiano, sono profondamente felice.

Una cosa lunga e noiosa su cosa mi piacerebbe fosse la Sinistra in questo curioso Paese

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Il Pd sbanda pure all'opposizione, Zingaretti e Renzi pari sono | L'HuffPost

Renzi ha ragione.

La “cabina di regia” contiana è l’idea di chi ha della democrazia un concetto turistico (cit.) ed è abituato a leadership cooptate. Culturalmente, viene dal partito di cui il Presidente del Consiglio è espressione. Lì, al netto del rivendicato egualitarismo, esiste una cerchia di prescelti che, combinata coi “tecnici” di area, ossia quelli che normalmente hanno superato almeno l’esame all’istituto alberghiero, sorvola ed esautora la fanbase – nel nostro caso, il Parlamento – poiché la riconosce inadeguata, incompetente.

Se Berlusconi portava in politica un’idea aziendalista, verticistica, dunque totalmente isolata dai meccanismi democratici (in azienda decide uno, e uno soltanto), quella dei casaleggesi è più vicina al socialismo reale. La dittatura del popolo. Una democrazia diretta in cui un satrapo, solo, cala le decisioni. Una fattoria degli animali. Anzi, più letteralmente, una factory.

Naturalmente Conte non ha ambizioni dittatoriali. Si è trovato a gestire questo considerevole troiaio (come credo dicesse Churchill) e fa quel che può e sa. Cioè poco. Uno che ha Casalino come spin doctor è conscio, nel profondo, di poggiarsi su fondamenta di argilla. La torsione autoritaria non è tale principalmente perché non alberga nelle intenzioni di chi dovrebbe operarla. Ma è del tutto evidente che un commissariamento del Governo sarebbe pericoloso.

Perché?

Perché viene dopo lo svuotamento di legittimità del Parlamento. Operato da chi, negli anni, ha governato con le regole del maggioritario estremo senza mai (mai) averne la legittimazione popolare. So bene che siamo una Repubblica Parlamentare. E che quindi il mantra grillino del “non eletto da nessuno” è vuota propaganda. Resta che, da Monti in poi, da quando cioè una situazione straordinaria portò al commissariamento di Lega, Forza Italia e Alleanza Nazionale, da quando cioè Giorgio Napolitano regalò a Berlusconi il tempo di rialzarsi e a Grillo quello di organizzarsi, il migliaio tra deputati e senatori è definitivamente diventato un timbrificio gestito da nominati.

Ma se questo è accaduto si deve principalmente alla responsabilità degli esecutivi successivi. Dei governi che hanno stravolto la dialettica parlamentare a colpi di Fiducie. Di chi ha blindato il palazzo dopo averne espettorato gli anticorpi del dialogo. Di chi ha consolidato una prassi per cui l’Aula è sostanzialmente una passerella per i collegamenti tv del question time.

Conte 1, cioè. Ossia Salvini e Di Maio. E Matteo Renzi.

Che l’ex Presidente del Consiglio sia diventato, oggi, alfiere del parlamentarismo, risulta anacronistico come un Briatore che inviti a versare l’Irpef. Ma questo è normale. Renzi ha molti pregi “politici”, quasi quanti i suoi sponsor pesanti, nascosti dall’enorme ego in cui risiede. La spregiudicatezza è certamente il principale. Gli manca una strategia, come hanno dimostrato i rovesci ripetuti degli ultimi anni. Ma è maestro di tattica. Per riacquisire centralità sarebbe capace di dire o fare cose di Sinistra. Anzi: l’ha già fatto. In passato.

Meno scontato è che il Pd ne sia ritornato completamente succube. Che lo usi come testa di ponte per manovre anche legittime che però, una volta di più, rimuovono un dato non trascurabile: il consenso. Il quale pare sia necessario per raggiungere un obiettivo che le forze progressiste non conseguono dai tempi di Romano Prodi: vincere le elezioni.

In questa traversata nel deserto che la Sinistra riformista compie con un agio imprevisto (governa) manca totalmente la percezione dello scoramento attivo che pervade il proprio popolo residuo. Le uniche tornate elettorali vincenti del recente passato derivano dalla paura di finire nelle mani di una qualche scappata di casa telecomandata da Salvini. Ma sono stati sempre e comunque voti difensivi.

Vederli agire, ora, con logiche da Prima Repubblica, leggerne le convulsioni alla ricerca del riequilibrio, del rimpasto, del predellino da cui disarcionare compagni di strada certamente modestissimi, vederli perseguire logiche che neanche Forlani ai bei tempi, e tutto mentre il loro popolo si rintana ogni giorno di più, risulta oggettivamente frustrante. E irrispettoso del loro capitale umano. Sul quale potrebbero investire, proprio come le aziende che, in tempi di crisi causa Covid, mettono sul piatto le risorse residue per rilanciarsi. O almeno dovrebbero farlo.

Il Partito Democratico, invece che baloccarsi con questioni di leadership, dovrebbe sfruttare i due anni che mancano al voto – Francia o Spagna, una maggioranza si troverà – per lavorare sulla propria identità. Dovrebbe prendere dal machiavellismo renziano il solo dato che gli manca: stare al Governo agendo come se ci fossero altri, quasi manifestando il disprezzo per la sbobba che si è costretti a ingoiare, e puntare (al contempo) a blindare la propria identità. Partendo dal dato che c’è uno zero di differenza. Cioè che la macchina del consenso vivaista, vincente ed efficace in ambiti apparentemente opposti come i social e gli uffici che contano (quelli degli Ad, o le redazioni dei giornali) ha il 2 per cento dei consensi reali. Zingaretti, che ci creda o no, il 20. È quello, il predelino, cristallizzato, su cui innestare quattro idee di buon senso, anche apparentemente impopolari, che trasformino gli elettori asintomatici in veicolo di contagio.

Prima però vanno ascoltati. Cercati, e poi ascoltati. Coinvolti in uno stato generale permanente, scovati nelle loro comode case, strappati alle loro librerie ben fornite. Rigenerati.

Anche se l’alternativa c’è: cedere alla scalata ostile di Italia Viva, stringersi alla coorte di un centro reazionario che inglobi anche i “responsabili” di Forza Italia, gettare benzina sull’inevitabile incendio populista che scaturirà, in assenza di un colpo d’ala, dalle urne, e condannare un italiano su cinque a perdere definitivamente rappresentanza.

Dall’opposizione. E senza aver mai governato per davvero.

Fate il vostro gioco. Ma presto.