Del perché Asia Argento avrebbe fatto bene a non denunciare, ma non per il motivo che pensate voi

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Lo sciabordio di letame che ha avvolto Asia Argento dopo le sue dichiarazioni su Harvey Weinstein ha scatenato un dibattito sul confine della molestia: fino a quanto si può aspettare per denunciare? Acconsentire significa complicità? È incoerenza trarre vantaggio professionale dal proprio corpo e poi lamentarsene?

Al di là del merito, nel quale entro tra poco, segnalo che la discussione sposta su un piano intangibile le stesse chiacchiere da bar che buona parte del Paese, non solo quello munito di prostata, attiva automaticamente in caso di stupro: quanto deve essere lunga la gonna per non configurare provocazione? È ammissibile tirarsi indietro dopo aver incoraggiato il maschio di turno? Ritrovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato manleva in qualche modo l’aggressore?

Il prestigioso contributo del compagno Betulla

Stupro e molestia sono situazioni diverse ma confinanti. Assecondare un aggressore per uscirne senza danni fisici non è troppo diverso da cedere a quello che potremmo chiamare maschilismo ambientale. Il contesto fa la differenza. Ed è un contesto che gli uomini dovrebbero considerare, far proprio, attribuendosi una vergogna di genere che ci aiuterebbe quantomeno a non violentare la ragione.

Posto che quella subita da Asia Argento è stata verosimilmente una violenza vera e propria (qui è spiegato bene) la questione è, anche, un’altra. E attiene al sistema. Se Hollywood (Hollywood: non Cinecittà) è un luogo in cui le parti si assegnano per questioni di letto, possibilmente imposte, perché non dovrebbe accadere nell’ufficio accanto al nostro? O nel nostro, anche?

Harvey Weinstein

Il potere è una bestia bruttissima. Accende un domino di relazioni rispetto alle quali quasi nessuno può dirsi innocente. Ma deprivando l’atto dai protagonisti, forse avremo una visione più chiara. Il punto non sono neanche il produttore erotomane e le molte sue vittime. Il punto è ciò che li genera. Cioè un sistema misogino radicatissimo che porta ad additare chi subisce e giustificare chi impone. Asia aveva paura di denunciare: gli insulti che l’hanno colpita dimostrano che non sbagliava.

Cominciare a smontare quel sistema è un piccolo dovere morale che tutti noi, popolo di “solo braghe” dovremmo portarci appresso. E anche molte donne. E, anche, chi si crede portatore di una cultura progressista (non dico la parola “sinistra” perché porta sfiga) ma poi concede le attenuanti al maiale e conta quanti amanti, tatuaggi o denari abbia avuto chi ne ha subito le avance.

Voi di sinistra, fate finta per un attimo che le donne siano migranti. Personalmente non ho mai schiavizzato nessuno e non ho sfruttato l’Africa. Ma la mia gente sì, ed è per questo che a ogni naufragio mi sento in colpa. E cerco di diffondere un minimo di cultura dell’accoglienza. Per ogni donna offesa, sul divano di un produttore, su una spiaggia, su un giornale, dovremmo cominciare a essere altrettanto sensibili. O almeno provarci.

Perché, non so come dirvelo, non si stuprano o molestano nemmeno quelle che vi stanno antipatiche.

Perché non possiamo dirci catalani (e men che meno Rajoy)

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Falta personal, falta personal, personal foul.

Era il 1997 ed ero a Badalona, Catalogna (Spagna, ad oggi).

Raccontavo per l’Unità gli Europei di basket. Quando lo speaker doveva avvisare il pubblico di un fallo personale, scandiva proprio così: falta personal (castigliano), falta personal (uguale, ma in catalano), personal foul (inglese).

Quel giorno mi convinsi che le pretese separatisti dei catalani erano, se posso usare un francesismo, una ridicola cagata. E questo al netto di una storia che conosco piuttosto bene, dell’identità di popolo, della repressione franchista da cui è nata una Costituzione molto più che autonomista. Che la Catalogna ha ampiamente sfruttato per diventare, anche economicamente, quel che è.

Nel ’91, quando il Palau Sant Jordi era ancora un’accozzaglia di lavori da finire in vista delle Olimpiadi (ma la Virtus ci giocò lo stesso, anzi credo addirittura che l’abbia inagurato) i tabelloni pubblicitari di Barcellona erano sporcati con lo spray: “Le vogliamo in catalano”. Mi ricordo che ne ridevamo, come poi avremmo riso del folklore padano.

Poi arriva un momento in cui il folkore smette di essere tale. Quello in cui il grumo nazionalista fa massa acritica – tipo la Brexit, altro harakiri acrobatico – e si arriva ad oggi. Con centinaia di migliaia di persone che, pacificamente, violano la Costituzione. E con un governo centrale che cerca di risolverla coi proiettili di gomma e le manganellate. Da una parte, un’illegalità disarmata. Dall’altra, una ragione violenta.

Non sai con chi non stare.

La mia amica Cathy Latorre spiega qui perché quella pagliacciata è contraria a ogni giurisprudenza, oltre che pericolosa. Le truppe della Guardia Civil che attraversano la Spagna tra ali di folla, in parte nostalgica del Generalissimo, sono sostanzialmente il primo passo di una Guerra Civile.

Che non ha senso.

Avete presente l’Alto Adige? È figlio di un equilibrio postbellico surreale, che ha diviso il Tirolo e provocato decenni di tensioni a volte sanguinose. Ecco: dopo Schengen, la questione è caduta. Perché il Tirolo di fatto esiste di nuovo. E gli altoatesini, cioè gli italiani di lingua tedesca, mai troverebbero in Austria la miriade di agevolazioni che lo Stato italiano, cosciente dei disastri mussoliniani in zona, ha concesso loro.

La Catalogna è un Alto Adige più tignoso.

O un (o una) Euskadi che però, a differenza dei Paesi Baschi, manco si ritrova con un territorio diviso tra due stati sovrani. Potrebbero paragonarsi ai curdi. Hanno fatto la Guerra Civile. Oggi, probabilmente, si sentono cittadini europei e se ne sbattono.

Non sono un politologo e probabilmente ciò che ho scritto contiene errori fattuali. È l’analisi di pancia di un tizio che schifa il nazionalismo, che si sente patriota del mondo, che odia i confini, che agli steccati preferisce l’identità culturale. Se vivi in una democrazia e ti permettono di esprimerla, mi basta e avanza. Sono italiano, bolognese, europeo, occidentale, laico, credo nella pace tra i popoli a parte forse con gli ultras del Cesena (ma no, in fondo vanno bene pure loro).

Però, ecco, proviamo a usare proprio una metafora calcistica, da cui potremmo desumere che tutta questa storia è prima di tutto grottesca (e, certo, anche drammatica). L’altro giorno la Catalogna ha chiesto la mediazione dell’Unione Europea per uscire dalla Spagna. Cioè ha chiesto all’Europa di mediare per potersene andare, pulendosi il culo con la Costituzione, da uno stato che dell’Unione fa parte. Cioè: i catalani vogliono la botte piena, la moglie ubriaca, e possibilmente che la bevuta sia offerta da qualcun altro.

Spostiamoci nel calcio, appunto. Il Barcellona ieri ha giocato a porte chiuse. Se la Catalogna esce dalla Spagna, il campionato con chi lo fa? Un bel derby col Tarragona tutte le domeniche? E i diritti del Clasico Barcellona-Girona, a chi li vendono? Ora: anche la Palestina non è uno stato ma ha un comitato olimpico. Quindi è pure possibile che il Barcellona, come pare sia intenzionato a fare, voglia giocare nella Ligue 1. Forse la Fifa li riconosce, con il giro d’affari che muove.

Ma il dato è un altro. Ed è politico, non economico: senza un contesto, non conti un cazzo. Senza una relazione col mondo, non migliori. A furia di alzare muri, tirerai la palla contro i medesimi. E c’è persino il caso che gli sponsor spariscano, che i guadagni scendano, che una Catalogna calcistica fuori dalla Spagna faccia la fine che le toccherebbe se uscisse dalla Spagna senza entrare nell’Ue.

Posso sbagliare, ma ‘sta roba non giova a nessuno. È l’atto ultimo di un impazzimento collettivo, tutt’altro che limitato a quel pezzetto di Spagna a sud della Francia, che ha ricevuto l’ultimo colpo di gas con la creazione di un’intelligenza collettiva attraverso i social.

Prima, i componenti della maggioranza silenziosa se ne stavano zitti, temendo di dire o fare la cazzata. Mo’ si organizzano. Come in Catalogna. Come in Veneto.

Oggi ci sembrano appunto folklore, come i cartelli in dialetto sparsi per la Bassa trevigiana, come un referendum del quale ridiamo ma che costerà un botto di soldi nostri per cominciare, parola di Zaia, lo stesso percorso catalano.

Ma hanno la stessa ratio di un altrove anabolizzato in cui fuggire per sentirsi più importanti e meno soli. La Serenissima non ha meno storia dei catalani, a vederla tutta. Parlano un’altra lingua – che tra l’altro manco ha dovuto essere riesumata come a Barcellona e dintorni, visto che Franco l’aveva improvvidamente rasa al suolo – e possiedono un sacco di sghei. Zaja è un Pudgemont al momento meno aggressivo.

Al momento.

Senza contare che in fondo l’Andalusia è stata araba per un periodo pare piuttosto lungo. Un bel referendum per la Sharia? E i galiziani sono mezzi portoghesi, vogliamo riunirli? E noi emiliani con i romagnoli ci siamo sempre stati sui coglioni. Perché non staccarci?

Perché sarebbe una cazzata.

Perché sarebbe un solipsismo autistico elevato a diritto che non esiste. Perché sarebbe la celebrazione di un fallimento – quello degli Stati-nazione – aggiungendo altri inutili Stati-Nazione.

Non si mena chi vota. Non si vota contro la legge.

Suerte. Bona sort. Buona fortuna.

La marcia di Milano, dialogo tra un conducente di taxi e un passeggere

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“Dottore, ma lei cosa ne pensa di questi qua che marciano e tra un po’ bloccano la città?”.

Il tassista vuole solo fare conversazione, e io sono vestito – non mi capita mai – in modo quasi normale: cappello accorciato, barba curata, ho una camicia che non fa a pugni con la giacca e uno zainetto che mi hanno spiegato essere di moda. Io l’avevo comprato su Amazon – anche questo farebbe punteggio – perché è rossoblù. Insomma, per dirla con Giorgia Meloni, sembro meno zecca rossa del solito.

“Allora dottore, che ne pensa?”.

Schiarisco la voce: “Le dirò una cosa impopolare: sono d’accordo”.

“Ma anche dopo quella roba lì della stazione?”.

“Lei lo sa di che nazionalità è il coglione che menava coltellate in stazione?”.

“Tunisino”.

“No, italiano”.

Silenzio.

“Però il padre…”.

“No, guardi, io mica ne faccio una questione teorica. Cerco di essere pratico. Quello è italiano. E in italia ci sono centinaia di migliaia di mussulmani tranquilli che però potrebbero radicalizzarsi. Come la vinci la terza guerra mondiale se non ti rendi conto che questa mina è innescata, che succederà qualcosa prima o poi, e che i tizi vestiti di nero di cui ha tanta paura non aspettano altro che l’odio di quelli come lei? Ma mica contro chi tira coltellate, contro tutti. Pensi che divertimento”.

Silenzio. Provo ad affondare.

“Per quello serve la marcia, per togliere brodo di coltura all’integralismo. Ha presente i vaccini? È come fermare il contagio”.

“Ma io son d’accordo. Anzi, io l’ho sempre detto che la colpa è dell’America. Se lasciavano stare Gheddafi e Saddam, non c’era l’invasione. Poi questi qua son poveracci… Li sfruttano, anche ‘sta gente delle Ong, che poi sono canadesi. Se si facessero i cazzi loro…”.

Lei sa cosa ha stabilito la Commissione parlamentare?

“Cos’ha stabilito?”.

“Che le Ong stanno operando lecitamente”.

“Eh, no. Ci son le indagini…”.

“Due indagati. Siamo in Italia: lei conosce qualcosa che sia puro al cento per cento?”.

“Ma io dico, perché non li portano a Malta invece che da noi. Malta è più vicina. Lì ci son le cose sporche..:”.

“A Malta ci portiamo anche un sacco di soldi in nero…”.

“Ha visto il cappellino con le Cayman? (Me lo mostra, non l’avevo visto). Ma quello è di un mio parente che guidava il taxi prima. Io non ce li ho i soldi alle Cayman, magari potessi… Ma noi italiani siam troppo buoni, dovremmo farci più furbi”.

“No, guardi, siamo furbissimi. Con 180 miliardi di nero all’anno potremmo essere la California, se solo li recuperassimo”.

“Ma io mica faccio il nero, eh? E io ho il mutuo da pagare. Il problema è la grande evasione. Che poi ci sono questi di Uber che ci fanno concorrenza sleale e non pagano le tasse. Vede qua? Ho preso la targa di uno prima che veniva da Parma, un Ncc. Gli ho preso la targa così lo segnalo. Aveva un negro a bordo, forse un egiziano. Allora come fa quello a essere ricco?”.

“Questo non possiamo saperlo”.

“Eh, non possiamo saperlo ma lo sappiamo. Non paga le tasse. Anche la Brexit, mi ha detto una mia amica che i romeni si facevano dare i sussidi per tutta la famiglia e poi la rimandavano a casa, ma continuavano a prendere i soldi lo stesso. Per quello sono usciti”.

“No, guardi. Sarebbe complesso. Ma siamo arrivati”.

“Undici e cinquanta. La ricevuta la lascio in bianco così l’importo lo mette lei, dottore?”.

Applausi. Sipario.

Una cosa impopolare sull’attacco di De Magistris a Saviano

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Roberto Saviano dice spesso che il suo principale torto è di essere ancora vivo.

Ha ragione.

Se la sentenza a suo carico fosse già stata eseguita, quantomeno non assisteremmo al dividersi scurrile che anima in queste ore il campo del cosiddetto fronte anticamorra, col sindaco di Napoli che, per difendere il proprio operato da un’intervista critica dell’autore di Gomorra, ha sfoderato un attacco personale che manco De Luca ai bei tempi.

De Magistris ha ovviamente ogni diritto di criticare Saviano, di smontarne – se riesce – il giudizio sulla  “sua” città. Di contrastarlo politicamente. Non può (non dovrebbe) farlo con le solite due frasette orecchiate malamente da Sciascia, che potremmo ridurre a una immagine: parla lui, che con la camorra si è arricchito e adesso conciona da un attico di New York.

Se mi è consentito, vorrei porre all’ex pm un paio di obiezioni:

  • Personalmente, trovo più comodo uno scranno a palazzo San Giacomo che vivere da latitante dopo aver scritto la verità sul Sistema. Per primo.
  • Non si vede perché, durante la latitanza, Saviano dovrebbe vivere a pane e acqua. È un giornalista, uno scrittore. Mica San Francesco. A meno che non voglia decidere De Magistris dove il suo odierno avversario deve nascondersi. Pyongyang? Beirut? La Fossa delle Marianne?

Non vedo, inoltre, perché Saviano non dovrebbe guadagnare dal suo lavoro. A parte che la blindatura lo costringe a non poter lavorare sul campo, limitandone di fatto i margini narrativi. Ma cosa c’è di male se incassa fior di royalties sui libri che, incidentalmente, ne hanno stuprato l’esistenza?

Chiedo a De Magistris: è meglio guadagnare con la camorra o l’anticamorra?

Saviano ha ragione: paga l’essere ancora vivo. L’essere diventato un santino suo malgrado.

Con le sue contraddizioni. I suoi libri più o meno riusciti. I suoi articoli più o meno azzeccati. Le sue opinioni più o meno condivisibili. Le sue interviste opinabili, per criticare le quali, però, non si dovrebbe usare un linguaggio, un tono, argomentazioni, che normalmente denotano una cattiva coscienza.

Il fatto che De Magistris non ce l’abbia, quella cattiva coscienza. Che sia una persona onesta. Che possieda una cultura superiore all’italiano medio abituato a costruire piedistalli che poi istoria di paduli disegnati con lo spray, che, in definitiva, la sua reazione sia molto probabilmente una bizza da primadonna incapace di tollerare qualcuno più “eroe” di lui, che gioca a chi ce l’ha più lungo, il curriculum, è parecchio triste.

E, se possibile, aggrava la gravità delle sue parole.

Farebbe bene – credo – a scusarsi.

Perché Grillo ha ragione: no al bavaglio del web

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(ANSA - JACK TORRANCE) Una serena immagine del rapporto tra Beppe Grillo e i computer

(ANSA – JACK TORRANCE) Una serena immagine del rapporto tra Beppe Grillo e i computer

Grillo (anzi: Casaleggio, che gli ha scritto il pezzo) ha ragione: ogni tentativo di censura nei confronti della rete è sbagliato, pericoloso, inapplicabile.

Se un privato – al momento pare Facebook, forse Google, poi si vede – si dà delle regole per scremare la quantità di palle che girano per il web, è una scelta sua. Il navigatore potrà legittimamente prediligere quel motore di ricerca o un altro, fidarsi di quel filtro, decidere chi gli pare credibile e agire di conseguenza.

Non può farlo lo Stato, perché sarebbe una limitazione della libertà di espressione e confliggerebbe e di molto con l’articolo 21 della Costituzione.

Il bavaglio, dunque, no.

Se qualcuno diffama, ci sono le leggi per denunciarlo. E se il Pd, quel Pd, pensa che la sconfitta al referendum sia opera della disinformazione online, più che a Maria Elena somiglia a Maria Antonietta.

Specie dopo essersi dato una sorta di contraerea che al clickbaiting grillino opponeva il proprio. Non solo nel linguaggio, ma anche e soprattutto nei temi. Uno su tutti, ossessivo, le tasse. Se hai copiato paro paro la comunicazione basata sugli sfottò, sui meme scritti coi carattere Impact, sui video pseudosatirici costruiti peraltro malamente, meglio se dopo stai zitto. Ci fai miglior figura.

Detto questo, la Casaleggio e associati con quelle bufale campa e su quelle bufale ha saldato il proprio elettorato raccontando scientemente una quantità di fandonie surreale ma sistematica.

Perciò, che a difendere la libertà di stampa sia l’editore delle Fucine, di Tze-Tze, il manovratore non dichiarato di una galassia che prende per il culo chi la usa per informarsi, è grottesco, patetico, in profonda malafede. E rappresenta il cortocircuito principale di chi, fattosi editore, è molto peggio di tutti gli editori che critica. E, fattosi politico, somiglia e a volte sorpassa a tutti i partiti che dice di voler abbattere.

E’ un po’ come se uno spacciatore si dicesse favorevole alla liberalizzazione dell’eroina.

Ha ragione, almeno per me. Ma dev’essere chiaro a tutti che lo fa, lui, principalmente perché sta difendendo – chiedo scusa per l’anglicismo – il suo core business.

Solo questo.

In alto i cuori.