Il caso Diawara: di curve, insulti e prevalenza dei cretini

Standard

Ha fatto bene. No, mi correggo: ha fatto benissimo. Amadou Diawara non poteva festeggiare meglio il gol che al 92’ ha permesso al Bologna di espugnare Marassi. Disponendone, gli avrei fornito un cartello lampeggiante con la scritta “gugu fatelo a vostra sorella”. Ma mi accontento che abbia imitato le movenze di un gorilla. Perché ci voleva un ragazzino a dirci che certe convenzioni si possono abbattere. Che quella roba lì è razzista, sbagliata. E sì, certo, poi è stato espulso. E tutti i cronisti hanno subito commentato dicendo che non si fa, che deve rendersi conto, che non è questo il modo. E il portiere avversario Perin ha detto che Diawara ora imparerà come vanno le cose negli stadi. Cioè che una massa indistinta può dare del negro a qualcuno, ma che il centro di cotanta attenzione manco può sfogarsi se per caso gli capita qualcosa di bello. E per assolverlo hanno persino detto che si era confuso col rossoblu della curva del Genoa e dunque ha esultato sotto la curva sbagliata. Perché si sa come sono quelle teste calde che vengono dall’equatore o giù di lì, mica hanno il senso dell’orientamento. Ha fatto bene, Diawara. Perché ‘sta roba che ci fa ridere e disperare è un gioco. Esultare non è reato. E in un mondo normale lo stadio non è un luogo nel quale i diritti civili vengono sospesi, nel quale gente che in strada da Diawara fuggirebbe a gambe levate, può permettersi di sputare su qualcuno per la pelle che porta. Ha fatto bene, Diawara. Lo rifaccia, la prego. Magari dopo un gol suo. E forza Bologna.

Uscito sul Corriere di Bologna

Di Ciccio Marocchi, Sky e le piccole squadre (attenzione: commento a importante rischio “chissenefrega”)

Standard

http://www.agriturismomanuela.it/wp-content/uploads/2012/04/Pecci-e-Marocchi-e1336144469874.jpgSono abbastanza vecchio per aver visto Ciccio Marocchi segnare di tacco in Coppa Italia, mi pare col Verona, un centinaio di anni fa. L’ho visto portare il dieci sulle spalle meritatamente, prima di andare alla Juve a fare il Furino ossigenato. Gli riconosco competenza e qualità espressiva. Però. Però come commentatore Sky risulta un filo più doroteo di Ciriaco De Mita. Sempre. Se poi per caso gli tocca il Bologna, ecco che la sindrome diplomatica esplode. Con picchi surreali come il match contro la Roma e prestazioni comunque notevoli come quella di sabato, quando – dopo aver sparso fumo sul rigore non fischiato a Mancosu – ha ammesso con una certa riluttanza che il gol del Toro era venuto dopo un fallo di mano visibile da Saturno. Attenzione, però. Non è colpa sua. E’ un dato di fatto (Sky almeno il Bologna lo trasmette, Premium manco ci ha voluto) che deriva dal peso specifico rossoblù in termini di abbonati e storia recente. Il Toro è Superga. Genoa e Samp rappresentano una città forte. Il Chievo ha una piccola epica di quartiere. Persino il Frosinone e il Carpi, per restare tra le piccole, destano una qualche simpatia. Noi no. Noi siamo senz’arte né parte, a livello di immagine. E anche per questo, tra arbitri e seconde voci, tutti se possono ci tirano un calcetto negli stinchi. Suggerisco perciò a Saputo di presentarsi alle prossime partite sventolando il suo bilancio da 12 miliardi di dollari e il conto corrente da 5, col quale volendo potrebbe comprarsi Sky e usarla come tv di condominio. E, se avanza, anche una punta. A quel punto vedersi una telecronaca potrebbe persino diventare più piacevole.

Uscito sul Corriere di Bologna

Quel giorno in cui mio figlio non diventò tifoso del Bologna

Standard

Questo articolo è uscito sul blog del Corriere di Bologna un annetto orsono. Oggi l’ho letto in radio per raccontare come mai non torno più allo stadio da tempo. Mi è stato richiesto. Eccolo.

 

Qualche mese fa mi è capitato un diverbio con alcuni ultrà del Bologna (che, per inciso, è la mia unica religione). Mi amareggiò molto. Scrissi un pezzetto liberatorio che però decisi di tenere nel cassetto perché mi sembrava troppo retorico. Forse lo è. Ma siccome una battuta su certi striscioni apparsi al Dall’Ara, quelli sulla Juve e sui suoi morti, ha rinfocolato le considerazioni di chi, anche amici, anche molto urbanamente, mi rimprovera di non capire le logiche della curva – e sì, limite mio, forse alcune proprio non le capisco – ho deciso di postarlo adesso. Siate clementi.

Domenica scorsa ho portato mia madre alla trattoria del Meloncello: passatelli, friggione, quella roba lì. Avevo lasciato la macchina in Certosa per andare a trovare mio padre, e nel passeggiare per riprenderla siamo passati davanti allo stadio.

Non ci vado da anni, allo stadio. Un po’ perché la domenica devo vedere la tv per scriverne, un po’ perché scroccare la tribuna stampa senza dover (più) lavorare mi incupirebbe.

L’ultima volta che ho assistito a una partita dal vivo era in Scozia, quest’estate. Volevo mostrare a mio figlio la magia del prato, da vicino. Magari per contagiarlo con la passione che mi pervade da sempre e che sembra non sfiorarlo. Ne ha altre, e tutte straordinarie. Ma il Bologna no.

Stavano (stavamo) per giocare contro il Pescara. E l’esterno dello stadio mi è sembrato bellissimo. C’erano molti bambini con la maglia rossoblù, tra l’altro. E io a un bimbo che tifa Bologna nel 2012, invece che Milan, Inter o Juve, non regalerei un ingresso ogni tanto. Gli darei l’abbonamento gratis. La divisa sociale. La foto garantita insieme ai suoi eroi. Una pergamena d’oro zecchino. E mentre tornavo verso l’auto attraversando il cimitero, e incontravo gli altri tifosi che passavano tra le tombe chiacchierando in dialetto di quanto sia forte Diamanti e un po’ meno forte Agliardi, lui, il piccolo, ha pigolato una frase meravigliosa: “Babbo, quando mi porti allo stadio?”.

Domenica prossima, gli ho detto. E anche se sapevo che forse lo faceva per me, perché credeva mi gratificasse, sono andato a casa rinfrancato. Magari stavolta si divertirà, pensavo. E pazienza se dovrò tappargli le orecchie perché il sottofondo delle partite è spesso odioso, gravido di ostilità, lontano millanta miglia da quel che un bambino dovrebbe percepire del calcio.

Verso le sei, già avevo esultato per Gilardino e sacramentato per Quintero, ho visto in rete una foto della curva Andrea Costa. In mezzo alla quale campeggiava uno striscione in caratteri squadrati che parlava di difesa dell’onore e altri concetti piuttosto vacui e piuttosto nostalgici. Allora ho fatto una cosa imprudente: l’ho postata su Facebook aggiungendo che ci meritiamo tutto.

In pochi minuti è partita una lunga sarabanda di gente che mi spiegava la topica che avevo preso, che con l’estrema destra quei caratteri non c’entrano nulla, che li usano tutti gli ultrà, che sì però le foibe, che sono un coglione, che loro sono apolitici. Gente che sulla propria bacheca faceva il saluto romano, “ma come gag”, o mostrava immagini dello sbarco di D’Annunzio a Fiume. Altri mi hanno spiegato che sono un imbecille perché non capisco la mentalità della curva, che noi “giornalai” – fresca, questa – dobbiamo smetterla e “magari ne parliamo di persona”, che se lo striscione non mi piace devo andare a strapparlo “in balaustra” e comunque se non sto attento faccio la fine di un cronista che fu menato. La discussione si è poi trasferita nei forum appositi, con toni anche più accesi.

Ora, l’occasione mi è grata per ribadire ciò che ho spiegato ai miei critici online: è ora che facciate pace con voi stessi. Gli striscioni neri, i caratteri runici, il cranio rasato, non sono estetica da swingin’ London: sono paccottiglia mussoliniana. Siccome c’è gente che è morta perché potessero essere espresse anche idee del menga, e anche perché la polizia tende a tollerare certa roba in curva perché non le capisce/non se la sente di intervenire, nessuno vi impedisce di esporli. Però assumetevene la responsabilità senza tendere il braccio e nascondere la mano.

Questo perché nel 2012 giocare a fare i fascisti si può, e non comporta alcun rischio. Anzi, spesso è un hobby borghese: altro che onore, antagonismo, retorica dei cani sciolti. Ma è proprio per quello, perché si può, che c’è gente come me ancora e profondamente antifascista. Perché, parafrasando la Buonanima, “certi nemici, molto onore”.

Mi spiace solo che il prezzo della vostra paraculaggine (siam tutti neri con lo striscione degli altri) l’ha pagato il mio bimbo. Perché oggi sono rimasto a casetta, e lui con me. Certi gentiluomini già avevano minacciato un cronista di questo giornale sui muri di fronte al Dall’Ara, senza che nessuno si sia mai preso la briga di cancellare quelle scritte, e questa patente intimidazione è passata in cavalleria nel silenzio di troppi. Avrei faticato a spiegare a mio figlio eventuali prodezze ai miei danni del gruppo vacanze Salò.

Magari, se vorrà, gli dirò tutto tra qualche anno. Gli farò leggere questo pezzo. E gli racconterò quella domenica di fine settembre del 2012 in cui battemmo 4-0 il Catania ma lui non diventò un tifoso del Bologna.

Perché sono contro la Tav

Standard

Pensavo questo, no?

Pensavo che nonostante il mio pane venga dalla satira, che è per forza di cose estrema, faziosa, talvolta aggressiva, gli ultrà – con qualche amichevole eccezione – mi stanno abbastanza sui coglioni.

Quelli del Bologna, tendenza fascionostalgica, mi hanno omaggiato di una scritta minacciosa davanti allo stadio. E mio figlio è molto orgoglioso: certi nemici, molto onore.

Gli juventini scassano spesso la minchia, ma smettono appena scrivi una cazzata sul Milan. Allora rompono quelli del Milan. Finché non ne fai una sull’Inter. Allora… no, gli interisti no. Sono un po’ il Pd del calcio: incassano tutto, sono abituati alla sofferenza.

I grillini, poi. I grillini si arrabbiano perché il verbo è intangibile. Sempre meno, in verità. Adesso le loro ragioni hanno smesso di urlarle, in molti, persino sui Social. Ma continueranno a votare Peppe, magari vantandosi un po’ meno, trollando un po’ meno. Perché da Silvio, a Benito, a Giulio, a Gianroberto, l’italiano certe passioni se le tiene un ventennio almeno.

E poi ci sono i No Tav.

Che poi io mica sono a favore della Tav, specie quella verso Lione. Ma penso che nella frase “Tav in Italia” la parola sbagliata non sia “Tav”, sia “Italia”. Se non fosse per gli appalti a cazzo, con Don Ciccio già pronto a intercettare la commessa. Se non fosse per le gallerie fatte costruire a chi manco lo so, ora, ma temo di scoprirlo tra vent’anni in un’inchiesta. Se non fosse perché è un’idea di Silvio e che l’appoggia molta gente indifendibile, se non fosse per mille altri motivi ambientali che mi spingono al no, direi: cazzo, è un treno.

Cioè, io non capisco niente, forse mi sbaglio, i giornali non li leggo tanto, ma mi pare che in Val Susa siano state da poco raddoppiate in ampiezza le gallerie autostradali. Ergo passeranno più Tir, dunque più merda. Come da sempre e per sempre. E non ricordo rivolte, per le autostrade più larghe.

Che poi manco è più Tav, no? E diventato un treno ad alta capacità. Cioè servirebbe alle merci. Ma fior di studi dimostrano che le merci non ci sono, non c’è la richiesta, che il corridoio è stato dismesso perché la Francia, la Slovenia, un po’ tutti, hanno mollato il colpo. E se non fosse per tutte le granitiche controindicazioni di prima, che ribadisco, che sposo, che difenderei fino alla morte, direi: ovvio che non c’è la domanda. E’ come non costruire una ciclabile perché tanto la gente non va in bici. Certo che non ci va: non ci sono le ciclabili. Questo direi, se non ci fossero Silvio, Lunardi, Fassino, Don Ciccio e compagnia cantante.

Però poi no, forse non lo direi. Perché ne so poco, davvero. Ma soprattutto perché sostanzialmente sono un pavido, un pigro. E a me di farmi fracassare i coglioni come è successo oggi, perché ho scritto che è un po’ comodo fare i No Tav da un teatro, o dalle colonne di un giornale, magari spiegando che i reati sono giusti perché si oppongono ad altri reati, ecco, mica mi va.

Non mi va perché non mi appassiona la slabbrata e vetusta teoria dei cattivi maestri, anche se, è evidente, sul treno della contestazione è salita gente che farebbe fatica a trovare la Val di Susa, senza Google Maps. Ma ha altre (e legittime, figurarsi) aspirazioni.

Non mi va, anche se certa retorica intellettuale è proprio quella dei favolosi Seventies.

Non mi va, anche perché in questo curioso Paese, quella retorica (vogliamo chiamarla di estrema sinistra?), trova oggi la sua migliore interprete in Daniela Santanché, che l’altro giorno ha finalmente ammesso ciò che il Pdl – il più eversivo dei partiti – lasciava intendere da tempo. Cioè che c’è un bene superiore, nel suo caso il culo di Berlusconi, per cui il codice penale non esiste più. Ed è inutile aspettare il corso della magistratura per stabilire quali e quanti sono i reati, persino se a guidarla è quella risorsa dello Stato, cioè di tutti noi, di Giancarlo Caselli, che anche lui si prende dell’infame sui muri da quelli che osa indagare. Infame, lo stesso aggettivo di cui lo onoravano i mafiosi.

In attesa del prossimo Carlo Giuliani, e del prossimo Placanica. E qualcuno che vuole entrambi c’è sicuramente su tutti i fronti. Chissà che bello spettacolo teatrale, che bel libro ci verrebbe. Quanti bei talk show. Quante copie di Libero e il Giornale in più. E anche di là, anche di là.

Non mi va perché poi mi toccherebbe ricordare che la Tav l’hanno già fatta tra Bologna e Firenze, sventrando lo sventrabile, prosciugando fiumi, lasciando paesi senz’acqua, per guadagnare una fottuta manciata di minuti. Ma quando lo fai presente, chessò, ai fan di Casaleggio, beccato mentre va da Peppe a parlare contro la Tav sfrecciando a 300 all’ora in galleria, poi ti spiegano che no, quella è un’altra storia, mica è la stessa Tav, perché non vieni in Valle…

Ecco, no. Pensavo di non andare in Valle. Pensavo di continuare a ritenere, con la mia testolina bacata, che quella Tav lì sia sbagliata e inutile per i fattori di cui sopra, tutti sacrosanti, tutti giusti, tutti intangibili. E che quei motivi, ampiamente rappresentati in parlamento, potevano già essere un disegno di legge, perché c’è un partito col 25 per cento che aveva tutti gli strumenti per agire.

Invece stanno a campeggiare sui tetti, cazzo, invece di essere al governo. Per difendere la democrazia, loro, in un partito che paga la Siae a Kim Jong Un.

Pensavo a tutte queste cose, con pacatezza, rispetto, quasi affetto per la battaglia contro quel treno (perché è un treno, cazzo) nonostante, come ho già detto, e giuro che era una battuta, a ogni gigantesca scritta sui muri, spesso scelti tra le case più povere, come se le abitazioni popolari non avessero diritto a un po’ di bello e a un po’ di decoro, mi verrebbe da andare ad aggiungere personalmente una traversina.

Perché in verità no: io sono profondamente, fieramente, immarcescibilmente contro la Tav in Val di Susa (e sul Garda, e ovunque ci sia qualcuno che ha un motivo fondato per non volerla, così come era sacrosanto non volere i viadotti dell’A1 negli anni ’60) ma fatico a condividere questa battaglia con chi usa i propri megafoni culturali per opporre l’illegalità bohemienne all’illegalità dei poteri forti.

Lo Stato si cambia, non si abbatte.

Buona No Tav a tutti.