Come Matteo Renzi avrebbe dovuto commentare Rimborsopoli se avesse imparato qualcosa dalla Dc

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di Matteo Renzi*

 

Il cosiddetto caso “rimborsopoli” che sta investendo il MoVimento Cinque Stelle va affrontato con la lucidità che quasi mai Grillo e i suoi collaboratori hanno dimostrato nei nostri confronti.

Vedere Di Maio che parla di “mele marce” ricorda, è vero, il Craxi che definì Mario Chiesa un mariuolo. Ma comprendo perfettamente lo sgomento del capo pentastellato nello scoprire che persino tra i suoi esistono, al netto di un corpo che immagino sano, torsioni e storture tipiche di un partito quando arriva a contare milioni di sostenitori e centinaia di deputati.

Penso sia sincero.

Per questo non ci uniremo al linciaggio di chi gongola vedendo gli “onesti” in difficoltà. Il MoVimento Cinque Stelle ci è avversario in tutto, ma ben conosciamo i danni che la cultura del sospetto ha fatto alla politica di questo Paese. Che deve essere trasparente, non solo sembrarla, senza cadere nel populismo.

Quando Alessandro Di Battista dice “non è vero che sono tutti uguali” ha perfettamente ragione. È ciò che noi del Pd, che il senso dello Stato lo abbiamo nelle radici, diciamo da sempre. Per questo chi si proclama più uguale degli altri sbaglia, per questo “rimborsopoli” è verosimilmente una prova di maturità che la democrazia impone a chi sa accettarne le regole.

Per inciso, è la stessa “restituzione” l’errore fondante: intanto perché versarla alle piccole e medie imprese configura una sorta di “clientelismo buono”. Poi perché lo stipendio di un deputato, eliminando le storture che il nostro Matteo Richetti ha provato ad affrontare purtroppo con relativo successo, è una garanzia di indipendenza rispetto alla corruzione e alle pressioni delle lobby. Fermo restando che se un politico ruba, deve essere perseguito per primo.

Concludendo, auguro ai Cinque Stelle che la corsa elettorale non sia toccata da questa storia, e a me stesso di ritrovarmi nel dopo-voto (che si annuncia non facile) ad avversarci duramente ma lealmente con una sola stella polare: il bene degli italiani.

Tutti.

*Testo raccolto da Luca Bottura della “Amintore Fanfani School of Political Speeches” di Borgo Panigale

Oggi è nato il Pd+Stelle. Buon divertimento

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renzilloNon credo che Roberto Giachetti sia il cafone maldestro apparso oggi all’Assemblea Nazionale del Pd.

Le sue battaglie politiche hanno sempre risentito della gratuità garibaldina dei radicali. Di molti radicali, va’. Lo era pure Capezzone.

Persino immolarsi contro la gragnuola annunciata del trionfo grillino a Roma è stato a suo modo un gesto coraggioso e alto.

A maggior ragione, l’infelicissima uscita contro Roberto Speranza – di cui, sia chiaro, m’interessa zero, così come del dibattito piddino – risulta paradigmatica di una definitiva mutazione genetica.

Anzi, della nascita di un nuovo partito.

No, non quello della Nazione: il Pd+stelle.

Facciamo due conti.

Chi non tollera il benché minimo dissenso interno? Il M5S. Ma anche il Pd+Stelle.

Chi incita i propri fedeli contro ogni diverso parere? Il M5S. Ma anche il Pd+Stelle.

Chi coltiva all’estremo personalizzazione e leaderismo della politica? Il M5S. Ma anche il Pd+Stelle.

Chi divide sistematicamente il mondo in noi e loro per compattare le truppe? Il M5S. Ma anche il Pd+Stelle.

Chi riduce a uno l’avversario? Il M5S (“Ma il Pd invece?”). Ma anche il Pd+Stelle (“Allora volete Grillo!”).

Chi difende i propri a spada tratta dalle stesse accuse giudiziarie che per gli altri sono infamanti e necessitano di immediate dimissioni? Il M5S. Ma anche il Pd+Stelle.

Chi attacca l’Euro, i tecnocrati, i poteri forti, nascondendo il proprio potere e vendendosi come underdog vessato? Il M5S. Ma anche il Pd+Stelle.

Chi evita di usare parole poco popolari come mafia e lotta all’evasione fiscale? Il M5S. Ma anche il Pd+Stelle*.

Chi attacca i giornalisti con la scusa di difendere la libertà di stampa? Il M5S. Ma anche il Pd+Stelle.

Potrei continuare, ma chiudo con la consonanza che ha fregato anche Giachetti: chi crede che la politica non debba proporre linguaggi magari ampollosi ma nobili, che chi è eletto debba esserlo per davvero anche nel modo di esprimersi, che la forma sia sostanza, il mezzo sia il messaggio, chi si comporta come un contropotere ma utilizza un linguaggio falsamente satirico, fintamente popolare, che abbatte sugli altri pur pretendendo rispetto per se stesso? Il M5S. Ma anche il Pd+Stelle.

Voi siete qui. E vi meritate (ci meritiamo) che continuino a indicarci la luna. Per farci abbaiare più forte.

Attenzione al dito, però.

 

*In realtà oggi Freud ha fatto sì che Renzi si vantasse pubblicamente di aver aumentato l’evasione fiscale e di volerla aumentare ancora di più. Poi si è corretto, Ma resta un lapsus meraviglioso

De Luca fuori dal Pd, #bastaunsì

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(ANSA - GENNY SAVASTANO) De Luca mentre chiede a Renzi se sa chi lo saluta un casino

(ANSA – GENNY SAVASTANO) De Luca mentre chiede a Renzi se sa chi lo saluta un casino

Ci tengo a dire una cosa, pacatamente: a me delle panchine di Salerno non frega un cazzo.

E anche della splendida illuminazione, di Salerno.

Che un sindaco qualunque metta le panchine e illumini le piazze mi sembra il minimo. E non trovo che per questo lo si debba idolatrare – specie lontano da casa sua, ma si sa che le mitologie si giovano della distanza chilometrica – e accettarne estro, linguaggio, postura verbale.

Mi sembra pochino anche per diventare presidente della Regione.

Perché Vincenzo De Luca è principalmente un intimidatore.

Il suo linguaggio diverte se lo fa proprio un bravo comico. Ma deprivato della satira fa paura.

Lo fa quando pesa e cadenza le parole contro i grillini (che non hanno titolo per criticare le violenze verbali altrui, ma non per questo devono esserne vittima) e quando, convinto di non essere ripreso, augura la morte a una compagna di partito. Dandole dell’infame.

Il dettaglio lessicale non è un caso.

L’infamità è tipica di un linguaggio malavitoso, curvaiolo, ultrà. È un aggettivo che attiene al patto tradito, al familismo violato, all’omertà non rispettata.

Occhio: questo non significa che De Luca sia un mafioso.

Significa che la sua cultura è quella della devastazione altrui, del rancore che porta conseguenze, della minaccia politica come stile di governo.

La cultura che i peggiori luoghi comuni affibbiano al Sud. Tutto il Sud. Anche quello che certo linguaggio schifa. Come schifa chi lo sparge per il Paese.

Quando mi sono permesso di suggerire al Premier (o al segretario del Pd, che sono poi la stessa persona) di prenderlo a metaforiche pedate, i renziani più accaniti mi hanno subito tacciato di critica preventiva e immotivata.

Ma la mia non era una critica*, anzi. Mi offrivo come spin doctor gratuito.

Pensateci: il primo Renzi aveva conquistato fior di consensi promettendo la rivoluzione. La rottamazione. La ripartenza gioiosa.

Ora: cosa c’è di più rivoluzionario che abbattere con un gesto plateale la non emendabilità del nostro Mezzogiorno?

Cosa c’è di più clamoroso, innovativo, realmente coraggioso che mandare all’ammasso i voti che De Luca garantisce – e quanti – spiegando che la vera battaglia è culturale e passa anche per la pulizia di casa propria?

Una delle accuse che il new deal leopoldiano riversa sulla sinistra d’antan è il non saper vincere. Ha ragione. Anche se al momento Renzi ne ha vinta una sola, ed era un’amichevole.

Però il “come” si vince è importante. E vincere accontentandosi dello status quo, coi soliti voti, col senso comune che fa strame del buonsenso, senza nominare mai mafia, camorra, evasione, manco per sbaglio, qualifica certe vittorie, tipo quella di De Luca,  come mero esito di una contingenza azzeccata. Senza alcun gesto concreto per cambiare, davvero, l’anima profonda di un Paese che ha un terzo dell’economia in mano alla criminalità organizzata e si ciuccia ogni anno 270 miliardi nero. Roba che ad Amatrice potresti farci le scuole a castello. Disegnate da Renzo Piano. In oro massiccio.

Non so (non m’intendo di politica) se il presidente del consiglio sia davvero uno splendido tattico ma uno stratega raffazzonato. Fosse solo un tattico, ribadirei il consiglio che mi ero permesso di dare: allontanare De Luca. Ora.

Se i sondaggi sul referendum sono veri, sarebbe l’unico modo per recuperare qualche voto a sinistra, quella sinistra cui sta radendo al suolo la casa. Fossero falsi, arriverebbe al trionfo col vento in poppa della prima decisione (la seconda, va’: le unioni civili sono un bel colpo) realmente esemplare presa in mille giorni di governo.

Sennò, temo, ci stiamo prendendo in giro. Come chi mette quattro luci in piazza e poi avvelena i pozzi augurando la morte a chi gli si para davanti.

Coraggio Matteo: lasci De Luca al proprio destino. E lo separi dal suo. Adesso. #bastaunsì.

*certo che era una critica, ma altrimenti non mi avrebbe retto l’impianto retorico del pezzo

 

 

 

Io, se fossi Pisapia

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Io, se fossi Pisapia, e non lo sono, sarei orgoglioso di aver migliorato Milano. Averla cambiata. Averla aperta al resto del mondo.

Se fossi Pisapia, e non lo sono, saprei di aver fatto la cazzatona di non scegliere tra Majorino e la Balzani, spianando la strada a una candidatura di discontinuità che sta per consegnare la città alla Gelmini, a La Russa, a De Corato, a Salvini.

Se fossi Pisapia, e non lo sono, avrei già fatto autocritica e mi starei chiedendo, in modo del tutto impolitico, come rimediare. Come evitare di buttare nel cesso il mio patrimonio, di gettare calce viva sul mio buongoverno.

Se fossi Pisapia, e non lo sono, comincerei a spendermi con generosità per il meno peggio. Tallonerei Sala nei mercati, in metropolitana, nei teatri, quando va al bar e mette l’auto in tripla fila, facendogliela spostare. Ci metterei il culo e la faccia. Farei capire che dopo aver vinto contro ogni pronostico, è possibile rivincere contro ogni pronostico. Contro un’inerzia evidente. Che ha bisogno di una scossa.

Se fossi Pisapia, e non lo sono, farei stampare a nastro manifesti col mio nome e quello di Sala.

Se fossi Pisapia, e non lo sono, darei credibilità a un’affermazione politica (“Votatemi per continuare”) che in bocca al city manager di Letizia Moratti suona poco credibile, addirittura respingente sia per il suo elettorato di riferimento che per quello avversario.

Se fossi Pisapia, e non lo sono, preparerei qui e ora il finale di campagna elettorale in piazza del Duomo, estrarrei dalla naftalina le bandiere arancioni, chiamerei a raccolta i milanesi che vogliono continuare la resurrezione gentile.

Fossi Pisapia, e non lo sono, lo farei per un motivo sentimentale e uno molto pragmatico: far vincere Sala con i voti decisivi di questa Giunta, di questo sindaco, di questa gente, sarebbe il modo migliore per mettere il cappello sul futuro e mantenere un ruolo preminente sulla città pur senza stare a Palazzo Marino. Quello che Pisapia ambiva a fare attraverso Maiorino, appunto. O la Balzani. Ed è in quella indecisione che è entrato Mr Expo.

Questo farei se fossi Pisapia. Steccherei la zampa dell’anatra zoppa e la porterei al traguardo. Per lui, in piccola parte. Per me. E per Milano.

Ma non sono Pisapia. Non posso farci niente. Lui però può. Si muova. Adesso.

Civati, colpa di Segafredo

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Come sa chi ha la bontà di seguirmi (Equitalia e pochi altri) ho una certa simpatia per Pippo Civati.

Mi capita, per usare un punto di vista inutilmente egoriferito, che lui condivida molte mie idee.

Altre volte sono in profondo disaccordo, ma più di rado.

Come molti, gli ho rimproverato eccessive cautele nel monetizzare il consenso che si è costruito da dissidente rispetto alla reaganizzazione Pd. Pensavo fosse giusto per lui creare una forza speculare al Nuovo Centrodestra e influire sulle sorti del suo partito attuale con un vero potere contrattuale dato da una percentuale di voto.

Il Pd attuale non si scala da dentro. L’Opa – parer mio – dev’essere lanciata da fuori per essere pronti se e quando questa dirigenza avrà mostrato la propria inadeguatezza, o per costruire un pungolo dalla precisa identità nel caso mantenesse almeno una parte degli obiettivi mirabolanti che si è data.

Invece Pippo è diventato (ad ora) quello che intervistano quando serve una dichiarazione a sinistra di Renzi da pagina 14 di Repubblica o 8 del Corriere.

Ieri l’ho visto sul palco di Sel mentre costruiva un asse con Nichi Vendola. Ha poi dichiarato che non è ancora il momento di dividere le sue strade dal Pd.

Per questo, con l’affetto di cui sopra, volevo significargli una brevissima considerazione/avvertenza e un raccontino morale.

Considerazione/avvertenza: Vendola (lasciamo stare le risate sull’Ilva) è quello che a Roma fa lo scavezzacollo anti Renzi e nelle regioni, tipo l’Emilia-Romagna, dove si vota tra poco, si allea col Pdr. E’ esattamente come quando Craxi governava con la Dc a Roma e col Pci nelle zone rosse. Non ne ho un ricordo entusiasmante.

Raccontino morale: il Bologna calcio, la mia squadra del cuore, in questi giorni è stato salvata dal fallimento grazie all’intervento di Massimo Zanetti, l’industriale del caffè Segafredo. Era già intervenuto quattro anni fa in circostanze analoghe, ma poi si era eclissato per via di certi contrasti con gli altri soci. Due settimane orsono un gruppo americano – cinque miliardi di fatturato – stava comprandosi il Bologna tra gli osanna della città. Ma ‘sto Zanetti li ha battuti sul tempo. Dopo però che eravamo finiti in B a causa del presidente che lui, Zanetti, ha lasciato spadroneggiare in sue assenza. Così, buona parte dei tifosi l’ha accolto a pernacchie. Nonostante li avesse salvati dall’estinzione.

Morale, Pippo, a presentarsi sul cavallo bianco in ritardo, la tua squadra retrocede. E, nel caso risalga, rischi pure che diano i meriti a un altro e le uova le tirino a te.

Un abbraccio.