Sui campi di concentramento nazifascisti e sugli italiani brava gente

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Il forno crematorio della Risiera di San Sabba

Sofia Ventura è una politologa di vaglia. La vedete in tv, la leggete in molti e titolati contesti.

Siamo tra l’altro vicini, talvolta, sulle pagine del Corriere di Bologna. Io sotto con le mie facezie, lei sopra con interessanti analisi di sistema.

E’ una figura colta e rispettabile.

Questa sera su twitter, lamentandosi con il Tg de La7 di un servizio appena andato in onda, ha scritto così: “Come si puo’ dire “‘campi di sterminio nazi-fascisti?” Furono nazisti. Punto. Questione di correttezza storica. @TgLa7”.

Le ho risposto: “@Sofiajeanne @TgLa7 quindi la risiera di san sabba è un’invenzione? bisogna che avverta qualche amico storico”.

Non ho avuto il bene di una controrisposta, mentre la timeline si arricchiva di commenti divisi in due filoni: qualcuno somigliava al mio, ed elencava anche Fossoli, Bolzano, e via concentrando. Altri, molti, la ringraziavano per avergliele cantate, ai comunisti, che si intrufolano ovunque pur di strumentalizzare. Al momento in cui scrivo nessuno ha tirato fuori le foibe, ma è questione di attimi.

Cercherò di mantenere un tono accademico: ma come caspita fa a uscirti dai visceri un tweet del genere, Sofia?

Chi volevi difendere? La storia no, perché quella la dice chiara: fummo servi dei nazisti in alcuni campi di raccolta, kapò entusiasti in altri, e a San Sabba, appunto, i prigionieri venivano fucilati, o gasati, poi cremati.

Volevi difendere l’italianità? No, perché se quello era il tema, trattasi di italianità da bar. Di quella che i tedeschi erano cattivi, ma noi invece… E poi in guerra ci entrammo perché non si poteva dire no. E in fin dei conti fino alle leggi razziali la gente lo sosteneva, il duce…

No, certo. Non era questo. Questi sarebbero discorsi da taverna. Anzi, meglio, da Roberta Lombardi. Però è lì che si arriva, partendo da 140 caratteri del genere. E dentro c’è tutta la pancia di un Paese che ha rimosso la dittatura senza fare i conti con le proprie responsabilità, a differenza – checché ne dica il tizio di Arcore – della Germania.

Che infatti è ripartita dopo aver espiato, a tutti i livelli. Anche e soprattutto quelli accademici.

A noi questo è mancato. E manca ancora. Ed è una colpa che gli intellettuali non dovrebbero perpetuare neanche incidentalmente. Specie se si dicono liberali.

Questo penso.

Da Sette: E all’improvviso parte una canzone tipo Van De Sfroos

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Chiedo scusa se, anziché abolirla, parlo di provincia. La mia, intanto.

L’altra settimana s’è svolta a Bologna la celebrazione del compleanno di Freak Antoni, recentemente scomparso. Su un palco gli Skiantos, con un po’ di amici, complici, qualche estraneo. Su un altro, l’ultima compagna di Freak. In mezzo, una teoria di dispettucci che, a futura memoria, ci hanno fatto scoprire una sorta di bitolseide al ragù. E una Yoko Ono, Alessandra Mostacci, che – parere personale – aveva fatto cose molto belle con Freak. Come quella “Però quasi” che fu loro respinta a Sanremo un paio d’anni fa. Ed è una canzone dolente e bellissima. Dove “bellissima” sta proprio per “bellissima”.

Beghe di periferia, appunto. Di una città che ancora tiene in un angoletto vergognoso Dino Sarti, chansonnier metafrancese, che cantava di operai imbrillantinati, compitava deliziose versioni in vernacolo di New York, New York (Neviork, Neviork), riempiva la piazza della città ad agosto. Poi compose l’inno del Bologna, in tempi in cui il presidente della società comprava – secondo la leggenda metropolitana – più partite che giocatori. E ogni anno la squadra si salvava boccheggiando. Dissero che Sarti portava sfiga. Morto. Prima di morire davvero, anni dopo. Così, di quella piccola/grande carriera spesa anche all’Olympia di Parigi, addirittura a Las Vegas, non si ricorda più nulla nessuno. Nonostante avesse sconfitto un nemico subdolo e terribile, oltre a quello della maldicenza: cantare in vernacolo districandosi con l’italiano, quasi a mo’ di traduzione, nello stesso pezzo.

Ci provarono successivamente i Modena City Ramblers, dei quali si ricorda con piacere “The great song of indifference” riletta coi profumi del lardo e dei chiodi di garofano. Mica male. Poi decisero (i fan pigri, più che loro) che per il tour successivo, bastavano Bella Ciao, Contessa, e passa la paura. E si riempiono le piazze.

Ci prova ancora Davide Van De Sfroos.

Van De Sfroos è simpatico, ironico, paraculo quanto serve (“Leghista? Mai”, poi però a cena con Formigoni ci vai, alle Feste della Lega pure, e siccome quelli, come intelettuale di riferimento, hanno il prof che dava le ripetizioni a Salvini, finisci pure a prender le briglie dell’Expo: e comunque mica è un reato) ma gli riesce meglio, gli è riuscito, il salto della quaglia che non quello di qualità.

Ascoltare per credere Goga e Magoga, l’ultimo album. E soprattutto il brano che dà il titolo al lavoro. Una specie di suite di quasi 7’ il cui titolo significa “Senza capo né coda”. C’è qualcosa di psichedelico, ci sono echi di Genesis, c’è un eco dei Delirium. C’è tanta eco. Di tradizione, di contemporaneità, di italiano, di laghée… la smettete con tutti quegli echi ché non si sente niente?

Che poi te lo ascolti e gli vuoi bene, al Bernasconi. Quando canta El Calderon de la Stria, con quegli archi senza un vero perché, che impastano e circondano citazioni buffe, tra Alice che non guarda più i gatti ma nel mirino del fucile, Pierino Gros, un ginecologo perso tra gnocca e poesia… e lo senti passare tra italiano e dialetto, dici che quasi quasi… E lo stesso vale per De  Me, una ballad con chitarra accogliente, che sembra “Talkin about la luganega” di Tracy Chapman. E per “Volevo essere Neil Young”, cioè Ki. O “Volevo essere i Jethro Tull”, cioè Mad Max. E per Crusta de platen (un po’ la sua versione di Certe notti, anzi “certe nücc”) e certe notti la radio che passa Enzo Jannacci sembra avere capito chi sei ma…

Ma.

Uscito su Sette

La legge del menga

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Matteo Renzi ha più che ragione: è patetico, grottesco, ridicolo che lui non possa giocare la Partita del cuore perché la sua presenza in tv violerebbe la par condicio.

Così come è patetico, grottesco, ridicolo, che il mio amico Marescotti venga espunto da una fiction su Raiuno perché candidato con Tsipras.

E Peppe, nell’attaccare Renzi ricordando la regola, si dimostra certamente opportunista, furbastro, aggressivo come sempre.

Solo che ha ragione pure lui.

Cioè, Peppe non ha mai ragione. Ma quando dice che la legge sulla par condicio inibisce la presenza di Renzi a quella cazzo di partita ha ragione.

E lo sappiamo noi che, lavorando periodicamente in Rai, a ogni elezione – cioè circa ogni 20’ – ci troviamo a dribblare il codicillo, estenuare la regola, ballare sulla lama, per tentare di aggredire l’attualità senza sembrare in diretta dal pianeta papalla.

Il problema è Berlusconi.

La legge sulla par condicio nasce per evitare a Berlusconi di apparire anche nelle colonnine Viacard.

Siccome però la Rai è in gran parte sua, come Mediaset, e in passato pure l’Agcom, ecco che la si estremizza in modo da estenderne i margini come una specie di blob paralizzante. Essa, la par condicio, discende su tutti: sui programmi di satira, su quelli di intrattenimento, naturalmente su quelli di informazione.

E tra i più strenui ed estremi difensori del provvedimento s’è sempre distinto il Pd, cui non pareva vero di limitare in qualche modo lo strapotere berlusconiano (il quale, intanto, faceva il cazzo che voleva sulle sue reti e in parte anche su quelle Rai) ma anche e soprattutto di mettere la mordacchia a ogni critica, distinzione, battuta, anche sulle reti pubbliche.

Poiché la par condicio piace ai politici, tutti. Perché azzera lo spirito critico.

Quindi, sostanzialmente, Renzi ha più che ragione. Ma deve incazzarsi anche e soprattutto col suo partito, che non ha saputo combattere Berlusconi politicamente ma, quando poteva, ne ha mutuato usi e costumi in termini di censura.

Proprio come ora vuol fare Grillo. Che, come tutti gli altri, vuole ridurre i giornalisti a prono-star.

Un caro saluto, e #cambiaverso a tutti.

Quella volta che sono stato “renziano”

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Il lavoraccio sporco della satira prevede l’incazzatura periodica di quelli ai quali andavi benone fino a pochi minuti prima. Mi è capitato con molti grillini, delusi da alcune premesse comuni che – Kasta! – non sfociavano nelle medesime conclusioni bestemmianti. Mi capita ora con alcuni renziani, variante genetica dei piddini, che non si capacitano di come si possa perculare Silvio e i destrorsi in genere, rimbalzare Peppe, archiviare Tsipras e Civatias, senza per forza correre in pellegrinaggio a Palazzo Vecchio. Siamo già al “devi riconoscere le cose buone. Perché difetti ne avrà, però…”. Che è come dire che in fondo l’Agro Pontino è stato bonificato.

La verità è che li capisco. Perché sono italiani. Come me. E a ogni italiano capita di credere prima o poi all’uomo della provvidenza. A quello che calpesterà pure qualche convenzione, due regole, forse anche due leggi. Però accidenti quante cose buone fa. E non se le fa, le annuncia. E come le annuncia bene.

Perché siamo così. A me capitò qualche anno fa. Mi innamorai di un leader appena conosciuto. Ne scrissi, in tutta sincerità, una lunga fellatio nel mio libro “Tutti al mare vent’anni dopo”. Era un viaggio in Italia sulle orme di Michele Serra. Mi fermavo ogni giorno in un punto della costa diverso, per un mese. Arrivai a Riomaggiore, alle Cinque Terre. Le raccontai così.

RIOMAGGIORE

Superata la Spezia – e con che gioia – c’è un bivio. In basso a sinistra, Portovenere. In alto a destra, Riomaggiore. La prima delle Cinque Terre. Il Serra andò a Portovenere, e salì sul battello turistico che permette di apprezzare al meglio il penta-capolavoro. Io sono finito a Riomaggiore, e il battello non partiva perché c’era mare mosso. Ma in cambio della gita in barca ho avuto di meglio: il nuovo leader del centrosinistra.

Si chiama Franco Bonanini, ha cinquant’anni e spiccioli. Una moglie, due figli. Due mandati da sindaco. E, dal 2000, la carica di presidente del Parco delle Cinque terre. Sta in un ufficio a Riomaggiore, che naturalmente ho dovuto raggiungere a piedi “perché da noi il turista deve mettere le pantofole”. E di quelli come me possiede un’idea precisissima: “Il turismo è degrado. La gente arriva, modifica le abitudini del luogo, ne devasta la cultura, cancella civiltà millenarie, lo rende simile alla città. Quando ha completato l’opera, si annoia. Perché si sente come a casa. E lo molla”.

Se vi state chiedendo come una visione del genere possa conciliarsi con una delle più poderose macchine da denaro che l’Italia conosca (il Parco, appunto) seguitate a leggere. Tenendo presente che qui fino agli anni ’70 si viveva nel Medio Evo, che quando arrivò la prima strada asfaltata fu usata per scappare – verso l’Arsenale di La Spezia, verso i ristoranti di Genova che cercavano camerieri, verso Milano – e che “la fine dell’isolamento, il confronto con la modernità, fu vissuto come una violenza. Improvvisamente ci si vergognava della povertà, parlare dialetto era diventato reato. Il confronto col mondo esterno ci annichilì, ci sgretolò”.

Sulla via della fuga, gli abitanti delle Cinque Terre  – mille a Terra, facendo le media, il 40 per cento in meno rispetto al secolo scorso – incrociarono i primi turisti. Chi decise di rimanere, di tornare, aveva di fronte due scelte: assorbire identità altrui, buttarla sulla quantità, fare cassa subito. O preservare la miniera d’oro per consegnarla ai propri figli. Siccome siamo in Italia, fu scelta la prima via. E di gran carriera. I contadini diventarono affittacamere, arrivando a stipare dieci persone in una stanza. Le coltivazioni vennero abbandonate.  Fu percorso  il modello Venezia. Quello di una Disneyland per riccastri  – soprattutto americani, neozelandesi, canadesi, naturalmente olandesi – senza identità. Il passo successivo, siamo alla fine degli anni ’80, sarebbe stato quello di aumentare le cubature. Rapalizzare.

Bonanini cominciò a lavorare nel ’91. “Mi chiesi: vogliamo fare un programma per cinque anni o per trecento? Concediamo licenze per cento alberghi, o proteggiamo quello che abbiamo? Cediamo ai Tanzi, alla Fiat, ai Gadolla o consentiamo a ognuno la possibilità di acquisire una rendita di posizione che durerà per sempre? Cerchiamo voti o futuro?”.

Si fece la domanda, insomma. Si diede la risposta. E elaborò un progetto politico che partiva dall’istituzione del Parco. Senza dichiararlo. Forse per questo l’ha quasi realizzato.

I caposaldi sono due. Il primo: recuperare l’identità culturale. Fare sistema. Buttarla sull’orgoglio di comunità. “Quando ero ragazzo  mi racconta i miei genitori si vergognavano a dire che erano di qui. La miseria non è mai un biglietto da visita avvincente. Inoltre, eravamo in balia dei forestieri. Mio padre produceva un vino eccellente ma dipendeva dai sensali. Che venivano a fine giugno, quando sei obbligato a vendere perché la vendemmia è vicina. Bevevano un bicchiere, lo sputavano. E alla fine ci pagavano meno della metà di quanto avevamo preventivato, o sperato, ipotizzando di finire quel piccolo lavoretto che attendeva da anni. Non deve succedere più”.

Il secondo: utilizzare l’identità per preservare il territorio. Dove per preservare il territorio (che può voler dire tutto o niente, scommetto che sta scritto pure sul programma di Forza Italia) si intende “coltivare”. Per motivi culturali. Per motivi commerciali, ché basilico e limoni delle Cinque Terre si cominciano a vendere, e bene. “E per motivi contingenti”, aggiunge Bonanini. “Sennò, sul lungo periodo, rischiamo una Sarno di pietre. Il lavoro dell’uomo, i terrazzamenti, hanno reso meno friabile la montagna. Ma se l’uomo se ne va, tutto torna precario. E se scendono in acqua i 700 chilometri di muretti a secco, cioè otto milioni di metri cubi, si portano dietro case e persone”.

Naturalmente non si possono costringere i proprietari riottosi a coltivare i terreni abbandonati. Nemmeno per il bene comune. Anzi, a maggior ragione. Però ci si può andare vicini vicini. Bonanini l’ha risolta così:  spesso i privati vogliono trasformare i casolari in abitazioni, aggiungere il bagno. Glielo si concede, ma solo a condizione che riportino i terreni a nuova vita. Se il privato non coltiva, il Parco non lo multa, “perché così sarebbe una selezione per censo, riservata a chi può permettersi il condono”. Si prende la terra.

Sembra l’esatto contrario di una cartolarizzazione. Lo è. Bonanini, che attraverso il Parco ha già nazionalizzato cinque ristoranti, diversi alberghi, il treno che percorre le Cinque Terre, i bus, il metano che quei bus fa muovere,  la terra vuole comprarsela. Ha un piano per investire cento milioni di euro in appezzamenti: poi li darà in comodato ai privati, per vent’anni. A patto che riportino i terrazzamenti agli antichi splendori. Sennò, fuori.

E’ un po’ lo stesso meccanismo che c’è negli esercizi commerciali: chi aderisce al marchio di qualità (che vuol dire prezzi accettabili e servizi di livello) paga il suolo pubblico cinque volte meno di chi non aderisce. E chi alza troppo i prezzi, il suolo pubblico non ce l’ha più, “perché non voglio essere complice di un’estorsione”. Come quella del tizio che mi ha chiesto 4 euro e 80 per un tè freddo e un’idea di farinata. Infatti non aveva neppure un ombrellone.

Per il turista funziona allo stesso modo: “Deve adeguarsi lui a noi e non viceversa”. Con cinque euro e poco più, ha gratis tutti i servizi. Compreso il trenino che il presidente, anzi il candidato, ha appena rimesso in funzione, riaprendo le stazioni che Trenitalia aveva chiuso. La trattativa era cominciata un mese e mezzo fa, ha già figliato.

Compresa, anche, una scuola di riflessologia, i cui studenti devono impegnarsi non sfruttare commercialmente ciò che hanno imparato. E compreso il naturopata. Un tedesco che ha preso la residenza qui e per 2500 euro al mese, pagati dal Parco, cura residenti e ospiti.

Ovvio che uno così, che decide e decide in fretta, che si sente investito da una missione “perché noi siamo gli ultimi che vengono dal Medio Evo e dobbiamo scrivere le regole”, sia anche discusso. Succede, quando metti un limite anche ai bagni in mare: li fai solo se soggiorni per almeno tre notti in un albergo che adotta procedure ecocompatibili. Succede se ti comporti allo stesso modo per la pesca, e la caccia, anche se poi magari diventi l’idolo delle doppiette perché gli concedi di “selezionare” i cinghiali. Succede quando hai il coraggio dell’impopolarità: “Prima di chiedere il Parco, cercai la legittimazione. E dissi chiaramente: so quello che ci può dare, ma lo vedremo molto più avanti. Se non vi va bene, non votatemi. Ho preso l’80 per cento”.

Col carisma dunque siamo a posto. Con la trasversalità pure (fu riconfermato alla guida del Parco persino dal ministro contro l’ambiente della Cdl, Matteoli). I rapporti internazionali ci sono: nell’Università dell’ambiente ospita convegni di americani e ucraini, serbi e scandinavi. La sinistra radicale non può non amarlo, perché certe scelte profumano di repubblica socialista: gli incentivi alle coop di pescatori, il Parco che compra i microscopi all’Usl e non viceversa, due ostelli per la gioventù, la regola di far pagare caro e tutto  – compresa la passeggiata sulla celebre Via dell’amore – a chi non acquista la carta servizi e non accetta le regole della comunità.

Per fare di Bonanini il leader dell’Unione manca solo la modernità. Anzi no. In realtà, è pure un imprenditore, seppure interposto Parco. Dà lavoro a duecento  giovani. Soprattutto con contratti co.co.pro. Macina utili. E, dato importante per un candidato, ha anche la tv. Via cavo, naturalmente. Perché quelli di Sky sono stati gentilmente invitati a mettersi le parabole altrove.

Adesso che lo conoscete,  avrete capito perché puntare su di lui. Il nostro Howard Dean, più che il nostro Ralph Nader. Ora, sia chiaro: per il prossimo mandato, o anche due, ciò che ci serve è uno come Romano Prodi. Ma quando avremo bisogno di uno che ha un programma per i prossimi trecento anni, quello sta alle Cinque Terre.

Fine.

 

*Franco Bonanini è stato arrestato nel 2010. Secondo la procura di La Spezia era al vertice di una “gestione faraonica” del Parco. Truffa aggravata ai danni dello Stato, associazione a delinquere, falso materiale e ideologico, tentata concussione, violenza privata e calunnia. Il processo è ancora in corso. Nel frattempo è subentrato a un collega di partito del Pd ed è europarlamentare. Si ricandida alle elezioni del 2014. Per Forza Italia.

Perché non possiamo dirci rosiconi

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Ieri ho scritto un post sul linguaggio di Matteo Renzi che è stato, con mio grande piacere, abbastanza letto e commentato.

Dicevo, sunteggio, che un Presidente del Consiglio non dovrebbe – parer mio – usare termini come “gufi” e “rosiconi” perché sono categorie arci-italiane antiche e piuttosto tossiche. Dimenticavo di aggiungere che entrambe vengono dal calcio. Dal nostro calcio.

Io sono tifoso. Non dovrei, perché è tutta una (stranota) questione di miliardari svagati. Però c’è quella vecchia storia del fanciullino da tenere in vita, e dunque così sia. Per soprammercato, tifo una squadretta. Che sta per retrocedere. Stavolta, a differenza di qualche campionato moggiano fa, persino meritatamente.

La mia squadretta, presieduta da un immobiliarista senza scrupoli, allenata da un incrocio tra un ausiliario della sosta e un muro di gomma, composta da giocatori mediocri e di poco cuore, è stata giustamente sconfitta dalla Juventus. L’arbitro è stato mediamente casalingo, forse poteva pure ammonire Pogba, forse poteva farlo un paio di volte, ma insomma, se non tiri mai in porta e ti nascondi dietro i tuoi limiti sperando che non grandini, prima o poi la pera la subisci. E perdi. Ed è giusto così.

Dopodiché, mentre il pallone volava verso l’area bianconera a 7” dalla fine, nella speranza di uno stinco misericordioso che lo rimpallasse in rete, il direttore di gara ha fischiato. In anticipo. Mentre Conte si sbracciava perché ciò avvenisse. Ora: il Bologna (la squadretta è questa) non avrebbe segnato neanche proseguendo a oltranza, e neppure sostituendo la porta con l’ingresso di un hangar. Però in quel triplice fischio precoce m’è parso di intravvedere un altro germe di italianità: evitiamo casini, portiamola a casa.

Secondo me l’arbitro ha ubbidito. Ma non a Conte: al Razzi che era dentro di lui. Fatti i cazzi tuoi, non rischiare, evita rotture di maroni.

L’ho scritto su Fb.

E’ partita una litania di oltre cento commenti. “Ti stimo, ma non devi parlare di calcio”. “E’ bello vederti rosicare come un tifoso qualunque”. “Non devi parlare di Juve”. “Però lo scudetto di cartone…”. “E allora l’Inter?”. “Ma le sentenze non dicono la verità…”. Eccetera.

Un po’ ho risposto, un po’ no. Cercavo di spiegare che non era in ballo la Juventus, parlavo di noi. Che non mettevo in dubbio quella giusta sconfitta, anzi. Tra l’altro avevo appena deriso i miei presunti beniamini in lungo e in largo. Niente. Non c’è stato verso. Che poi, certo, è possibile che in me alberghi lo sconforto di chi mai più vedrà, in tutta la vita, l’ombra di un successo, perché qua non siamo negli Usa, l’equità competitiva non è un fine in nessun campo e figuriamoci nello sport, e quindi il meccanismo prevede quattro/cinque grossi club e una miriade di sparring partner che vengono trattati ogni domenica come carne da cannone. Dai media, dagli arbitri. E hanno mille ragioni di lamentarsi.

Ma stavolta no. Stavolta da lamentarsi non c’era nulla. Se non che in Italia c’è gente che “che schifo Berlusconi, le sentenze si rispettano”. Però poi “gli scudetti sono 32, rosicone”.

Per dire: quando il Bologna finì in mezzo alle scommesse, ero molto incazzato. Ma non coi giudici. Con chi ometteva denunce, magari la scampava pure, ma intanto aveva lordato i miei colori d’infanzia.

Però va bene, non c’è problema.

Soltanto era, la mia, una semplice considerazione complessiva su come siamo a queste latitudini. Coerente, credo, con ciò che affermo tutti i giorni in altri campi. Raccogliendo, negli altri campi addirittura qualche consenso, anche da quelli che poi mi dicono “ti ascolto sempre ma quando parli di calcio…”. Persino in posta privata.

Non parlavo di calcio.

Lo usavo – credo di non essere il primo – come metafora.

Dovessi parlarne, direi che adoro Pirlo. E mi piace moltissimo Pogba. Un po’ falloso. Ma ha fatto un gran gol. Ed è un gran bel giocatore. E ieri sera il risultato è stato ineccepibile.

L’ho già detto? Repetita Juventus.

Ah, Forza Bologna.