Mio grillino che guardi il mondo

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Amico pentastellato, so come stai.

Le ho perse quasi tutte da quarant’anni in qua.

E ogni volta, come te, davo la colpa al complotto. Ai brogli. Al Paese che non capisce. Chi non votava a sinistra – quante volte l’ho detto – era ignorante. O in malafede. O corrotto. O costretto dalla clientele.

Non se ne usciva.

Beh, ero un coglione.

Lo sono in massima parte anche ora, ovviamente. Però, da osservatore esterno, vedo meglio te che me.

E ti dico: guarda che non è così. Guarda che le ragioni per cui uno finisce a votare non dico Dell’Utri (che è la mafia) ma qualcosa che non gli somiglia per niente (cit.) possono essere infinite. Specie nell’età adulta.

E i tuoi capi (quello col cappelletto, l’altro che diceva di volersi ritirare e adesso cita poesiole che manco Marzullo) stavolta sono stati la ragione principale.

Immagina che Napolitano – non lui, non la trattativa: quel che rappresenta, lo Stato – venga minacciato di essere circondato da una folla tonitruante.

Immagina uno che dice: facciamolo noi pacificamente, di circondare il Quirinale, oppure lo farà qualcun altro. Non pacificamente.

Immagina l’ingresso nel linguaggio politico di Hitler, dei manifesti “O noi o loro” per strizzare l’occhio all’estrema destra, immagina che esistano conservatori non fascisti che fianco a fianco con quelli di Forza Nuova non vogliono finirci, pure se prima magari stavano con Gasparri. Molti dei quali, tra l’altro, oggi votano per i tuoi.

Sì, lo so. Renzi, la Dc. Il nuovo Berlusconi. Gli 80 euro. Eccetera.

L’ho scritto mille volte pure io. Lo penso ancora. E penso che il 40 per cento preso per emergenza non lo trasformi in Eisenhower, e non tramuti la sguaiata festa della Moretti (con un linguaggio così simile a Peppe, e Silvio) in qualcosa di gradevole.

Però pensa a quella gente vagamente decorosa di prima, anche se diversa da te. Esiste. E non è mafiosa solo perché non siete d’accordo su parecchi punti. E non se ne fotte del futuro dei propri figli anche se non ritiene di affidarlo al professor Becchi, o Paragone, o quelli che attribuiscono al Bildeberg anche l’amatriciana scotta.

Pensa a quei piddini che ti avevano dato fiducia, a te e al movimento, ma poi hanno temuto che con le istituzioni – non tu, quei due – ti ci pulissi il culo… E sono corsi in cantina, hanno recuperato un po’ di sacchetti di sabbia, li hanno portati metaforicamente davanti al Quirinale.

Pensavo, l’altro giorno, che se davvero un milione di persone avesse circondato la presidenza della Repubblica, avrei voluto essere lì a farmi circondare. Anzi: penso proprio che avrei preso il primo treno, per farmi circondare.

Sì, lo so che tu la consideri una provocazione. Che non volevi. So che quella minoranza rissosa del Movimento, quella che prende Peppe e Telespalla alla lettera, è lontana anni luce dal territorio, da chi si sbatte ogni giorno per obiettivi spesso meravigliosi, da tutte le persone perbene che sono la vera forza dei Cinque Stelle.

E allora, amico grillino, benvenuto nel club. Di quelli che almeno una volta hanno votato leader di cui sono molto, ma molto meglio.

E’ una cosa molto di sinistra. Almeno quella.

In difesa di Alessandro Di Battista dalle strumentalizzazioni dei giornalai

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(ANSA – SING SING) Una incisiva immagine di Alessandro Di Battista

A me spiace davvero tanto che una persona come Alessandro Di Battista, il cui impegno politico è indiscutibile, e con esso un entusiasmo puro e sincero verso un’Italia diversa, più onesta, non collusa, sia costretto dalla campagna elettorale e dall’incalzare di noti giornalai come Mentana a semplificazioni contorte che sfociano in frasi definitive tipo “La mafia è Civati”.

Mi spiace non tanto per Civati, o per la mafia, o per “è”, quanto perché, al netto delle successive spiegazioni di Di Battista, che ha meglio chiarito e tradotto il senso della sua invettiva, e cioè che Civati è la mafia perché gli tocca stare nel Pd che lo costringe a versargli del denaro – e questo concetto, com’è evidente, è politicamente inattaccabile – qualcuno potrebbe pensare di lui, Alessandro, che sia un invasato incosciente e/o uno che per due voti in più potrebbe persino abbassarsi ad avvelenare i pozzi accostando un collega parlamentare alla criminalità organizzata (che, nonostante non strangòli come sostiene Beppe Grillo, non è certamente un compagno di viaggio commendevole).

Per questo sono dispiaciuto per Di Battista, la vera vittima di questo can can mediatico, orchestrato contro il MoVimento, che certo non merita di passare per un tizio arrogante, ignorante, aggressivo, e va invece considerato per la persona corretta e competente quale certamente è*.

* Mi raccomando: nessuno estrapoli da questo testo frasi decontestualizzate mirate a farmi dire ciò che non ho mai detto

 

La guerra di Piero

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Non ho alcuna particolare simpatia per Piero Fassino. Lo ricordo ministro non particolarmente meritevole – meglio Bersani, volendo – e politologo menagramo: invitò Grillo a farsi un partito, se ci riusciva. C’è riuscito.

Fece anche alcune brutte figure davanti alle telecamere di Report (anche se temo le faremmo in molti, a dover difendere l’indifendibile).

Però oggi m’è proprio venuto da solidarizzare con lui.

Quel medio che gli è scappato davanti agli ultrà del Toro che lo contestavano solo in quanto “gobbo di merda”, e non per quello che stava dicendo in qualità di sindaco – l’onore e il rispetto per la Torino granata, la promessa di onorare Superga, e quella terribile storia, con gesti concreti – me l’ha reso sodale.

A me era capitato giusto la sera prima. Un tizio su Facebook mi aveva insultato (le solite cose: “i tuoi padroni”, “piddino”, ovviamente a “piddino” non ci ho visto più) e mi era sfuggito, in risposta, un motteggio sul fatto che poteva anche andarsene laddove lui, il suo amico Telespalla, e quell’altro che ne fa da ventriloquo, spediscono chiunque non sia d’accordo con loro.

Poi ho pure cancellato, non mi andava di usare lo stesso linguaggio. Allora lui l’ha ripostato, offeso, o irridente. Non ho capito bene. E io l’ho lasciato lì. Perché mi pare la plastica dimostrazione di un Paese in cui l’insulto gratuito è ormai la norma di ogni dialettica (di più sui social, ma è il messaggio che è il mezzo, non viceversa) secondo una curiosa regola d’ingaggio per cui c’è chi le deve sempre prendere e chi deve darle sempre.

Ha fatto male Fassino. Ho fatto male io. Un ruolo pubblico anche minimo ti obbliga ad accettare anche le critiche più grevi. Si chiamano social. Sennò te ne stai a casetta. E nessuno ti obbliga a fare il sindaco, se sogni l’unanimità. O a scrivere i tuoi pensieri su Fb.

Però ho capito una cosa: il potere degli ultrà (politici, sportivi, di qualunque campo) si basa su un equilibrio fragilissimo, e cioè sul fatto che qualcuno continui a mantenere due regole di convivenza civile nonostante gli piova melma addosso da ogni dove, spesso senza memoria e senza alcuna ragione specifica.

Quella stessa melma che fa comodo a chi lucra il proprio piccolo potere (appunto: politico, sportivo, in qualunque campo) sulla prevaricazione zozza del “tutti uguali”.

Il giorno in cui la Boldrini, a prescindere da ogni possibile demerito, risponderà “coglione ignorante” a Bonanno che le dà della stronza, temo purtroppo che farò la ola. Anche se io, nel mio piccolo, prometto di non rispondere più.

E comunque “tutti uguali” il cazzo.

La legge del menga

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Matteo Renzi ha più che ragione: è patetico, grottesco, ridicolo che lui non possa giocare la Partita del cuore perché la sua presenza in tv violerebbe la par condicio.

Così come è patetico, grottesco, ridicolo, che il mio amico Marescotti venga espunto da una fiction su Raiuno perché candidato con Tsipras.

E Peppe, nell’attaccare Renzi ricordando la regola, si dimostra certamente opportunista, furbastro, aggressivo come sempre.

Solo che ha ragione pure lui.

Cioè, Peppe non ha mai ragione. Ma quando dice che la legge sulla par condicio inibisce la presenza di Renzi a quella cazzo di partita ha ragione.

E lo sappiamo noi che, lavorando periodicamente in Rai, a ogni elezione – cioè circa ogni 20’ – ci troviamo a dribblare il codicillo, estenuare la regola, ballare sulla lama, per tentare di aggredire l’attualità senza sembrare in diretta dal pianeta papalla.

Il problema è Berlusconi.

La legge sulla par condicio nasce per evitare a Berlusconi di apparire anche nelle colonnine Viacard.

Siccome però la Rai è in gran parte sua, come Mediaset, e in passato pure l’Agcom, ecco che la si estremizza in modo da estenderne i margini come una specie di blob paralizzante. Essa, la par condicio, discende su tutti: sui programmi di satira, su quelli di intrattenimento, naturalmente su quelli di informazione.

E tra i più strenui ed estremi difensori del provvedimento s’è sempre distinto il Pd, cui non pareva vero di limitare in qualche modo lo strapotere berlusconiano (il quale, intanto, faceva il cazzo che voleva sulle sue reti e in parte anche su quelle Rai) ma anche e soprattutto di mettere la mordacchia a ogni critica, distinzione, battuta, anche sulle reti pubbliche.

Poiché la par condicio piace ai politici, tutti. Perché azzera lo spirito critico.

Quindi, sostanzialmente, Renzi ha più che ragione. Ma deve incazzarsi anche e soprattutto col suo partito, che non ha saputo combattere Berlusconi politicamente ma, quando poteva, ne ha mutuato usi e costumi in termini di censura.

Proprio come ora vuol fare Grillo. Che, come tutti gli altri, vuole ridurre i giornalisti a prono-star.

Un caro saluto, e #cambiaverso a tutti.

Perché non possiamo dirci rosiconi

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Ieri ho scritto un post sul linguaggio di Matteo Renzi che è stato, con mio grande piacere, abbastanza letto e commentato.

Dicevo, sunteggio, che un Presidente del Consiglio non dovrebbe – parer mio – usare termini come “gufi” e “rosiconi” perché sono categorie arci-italiane antiche e piuttosto tossiche. Dimenticavo di aggiungere che entrambe vengono dal calcio. Dal nostro calcio.

Io sono tifoso. Non dovrei, perché è tutta una (stranota) questione di miliardari svagati. Però c’è quella vecchia storia del fanciullino da tenere in vita, e dunque così sia. Per soprammercato, tifo una squadretta. Che sta per retrocedere. Stavolta, a differenza di qualche campionato moggiano fa, persino meritatamente.

La mia squadretta, presieduta da un immobiliarista senza scrupoli, allenata da un incrocio tra un ausiliario della sosta e un muro di gomma, composta da giocatori mediocri e di poco cuore, è stata giustamente sconfitta dalla Juventus. L’arbitro è stato mediamente casalingo, forse poteva pure ammonire Pogba, forse poteva farlo un paio di volte, ma insomma, se non tiri mai in porta e ti nascondi dietro i tuoi limiti sperando che non grandini, prima o poi la pera la subisci. E perdi. Ed è giusto così.

Dopodiché, mentre il pallone volava verso l’area bianconera a 7” dalla fine, nella speranza di uno stinco misericordioso che lo rimpallasse in rete, il direttore di gara ha fischiato. In anticipo. Mentre Conte si sbracciava perché ciò avvenisse. Ora: il Bologna (la squadretta è questa) non avrebbe segnato neanche proseguendo a oltranza, e neppure sostituendo la porta con l’ingresso di un hangar. Però in quel triplice fischio precoce m’è parso di intravvedere un altro germe di italianità: evitiamo casini, portiamola a casa.

Secondo me l’arbitro ha ubbidito. Ma non a Conte: al Razzi che era dentro di lui. Fatti i cazzi tuoi, non rischiare, evita rotture di maroni.

L’ho scritto su Fb.

E’ partita una litania di oltre cento commenti. “Ti stimo, ma non devi parlare di calcio”. “E’ bello vederti rosicare come un tifoso qualunque”. “Non devi parlare di Juve”. “Però lo scudetto di cartone…”. “E allora l’Inter?”. “Ma le sentenze non dicono la verità…”. Eccetera.

Un po’ ho risposto, un po’ no. Cercavo di spiegare che non era in ballo la Juventus, parlavo di noi. Che non mettevo in dubbio quella giusta sconfitta, anzi. Tra l’altro avevo appena deriso i miei presunti beniamini in lungo e in largo. Niente. Non c’è stato verso. Che poi, certo, è possibile che in me alberghi lo sconforto di chi mai più vedrà, in tutta la vita, l’ombra di un successo, perché qua non siamo negli Usa, l’equità competitiva non è un fine in nessun campo e figuriamoci nello sport, e quindi il meccanismo prevede quattro/cinque grossi club e una miriade di sparring partner che vengono trattati ogni domenica come carne da cannone. Dai media, dagli arbitri. E hanno mille ragioni di lamentarsi.

Ma stavolta no. Stavolta da lamentarsi non c’era nulla. Se non che in Italia c’è gente che “che schifo Berlusconi, le sentenze si rispettano”. Però poi “gli scudetti sono 32, rosicone”.

Per dire: quando il Bologna finì in mezzo alle scommesse, ero molto incazzato. Ma non coi giudici. Con chi ometteva denunce, magari la scampava pure, ma intanto aveva lordato i miei colori d’infanzia.

Però va bene, non c’è problema.

Soltanto era, la mia, una semplice considerazione complessiva su come siamo a queste latitudini. Coerente, credo, con ciò che affermo tutti i giorni in altri campi. Raccogliendo, negli altri campi addirittura qualche consenso, anche da quelli che poi mi dicono “ti ascolto sempre ma quando parli di calcio…”. Persino in posta privata.

Non parlavo di calcio.

Lo usavo – credo di non essere il primo – come metafora.

Dovessi parlarne, direi che adoro Pirlo. E mi piace moltissimo Pogba. Un po’ falloso. Ma ha fatto un gran gol. Ed è un gran bel giocatore. E ieri sera il risultato è stato ineccepibile.

L’ho già detto? Repetita Juventus.

Ah, Forza Bologna.