Analogie e differenze tra il compagno Fantinati e noi (noi chi, peraltro, ma dovevo citare i Cccp)

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Con una mossa propagandistica di luccicante furbizia, il cittadino Mattia Fantinati del MoVimento Cinque Stelle è andato al Meeting di Rimini, regolarmente invitato, per cantarle chiare ai Ciellini.

Ha parlato di lobby intollerabili, di incompatibilità tra cristianesimo e affarismo, di laicità applicata alla politica.

Dette così, paiono affermazioni “di sinistra” (per usare categorie Novecentesche) sulle quali non sono io a essere d’accordo con Fantinati, ma è lui a concordare con ciò che molti di noi pensano e dicono da sempre.

Invece.

Invece c’è un passaggio che scolpisce plasticamente le differenza tra Fantinati e il sottoscritto: “Il M5S si indigna che si possa strumentalizzare in questo modo tanta brava gente e credenti cattolici”.

Secondo quello che da questo momento chiamerò il pensiero fantinatico, dunque, la brava gente e i credenti cattolici sarebbero stati fuorviati da un potere superiore che ne ha travisato gli ottimi propositi.

Cercherò un’analisi politica raffinata: sciocchezze.

Sciocchezze che stanno alle fondamenta di quel grande scarico delle coscienze chiamato MoVimento Cinque Stelle.

La favola che la gente comune (sia essa cristiana, atea, pastafariana) rappresenti una massa indistinta strumentalizzata dai poteri cattivi è appunto una favola.

I ciellini hanno scelto il loro carnefice, hanno applaudito negli anni i peggiori mafiosi, hanno accettato e rivendicato l’accesso al regno dei cieli con una scala dorata di vantaggi concreti.

Non sono innocenti. E non sono innocenti gli italiani che per anni hanno votato Berlusconi, la Lega, An (o il Pd, per sposare la vulgata del “tutti uguali” che Renzi si sta incaricando di rendere verosimile) e poi sono passati a Grillo perché diceva loro: “Tranquilli: se questo Paese è ridotto così non è colpa vostra”.

Fantinati è andato dai ciellini a dire che era colpa di Formigoni ma loro erano e sono persone perbene.

Palle.

Palle di un Paese che non è mai stato fascista, non è mai stato berlusconiano e un giorno non sarà mai stato ciellino o grillino. Sempre per convenienza. Sempre votando chi gli dice che le responsabilità sono ben altre.

L’altro giorno ho conosciuto casualmente un aspirante ingegnere fisico. Spera di specializzarsi in nanotecnologie, ma Brunetta non c’entra. Per mantenersi, d’estate, fa il cameriere in un bed and breakfast. Si lamentava dell’Italia com’è, degli evasori fiscali, dei leoni da tastiera.

E’ una persona deliziosa, perbene. Uno di quelli che ti danno un minimo di speranza per il futuro di questo paese.

Vota Cinque Stelle.

Bene, se devo pensare a qualcuno strumentalizzato, penso a lui. Dai guru del MoVimento. E da questi partiti che, a occhi giovani, vergini e privi di ideologia, non hanno lasciato altra scelta del “proviamo anche questi”.

Tra dieci anni, magari al Circo Massimo, qualcuno salirà su un palco a dire che i valori del MoVimento sono stati traditi e che non si può pensare di cambiare l’Italia partendo dalla sistemazione dei bilanci della Casaleggio e associati.

O forse no, perché certe cose Peppe non le permette.

Nel caso, comunque,  qualcuno condividerà a nastro quel video.

Lo definirà “storico”.

E avrà ragione: perché è sempre la stessa storia.

Anzi – grazie a noi italiani – sarà sempre la stessa Storia.

Nessuno ci può giudicare: la lettera della precaria a Repubblica

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L’altro giorno mi è arrivata una multa dal Comune di Rovigo per aver superato il limite di velocità, tolleranza compresa, di un chilometro. Uno. In tangenziale.

Ne ho fatto un post su Facebook ringraziando ironicamente i latori della contravvenzione. Qualcuno mi ha fatto notare che faccio il precisino in lungo e in largo e che quindi non potevo lamentarmi. In realtà io mi lamentavo della sfiga, non della regola. Ma i miei censori avevano ragione.

Perché mi stavo comportando, o comunque ne davo l’impressione, da italiano-tipo. Che non vuole farsi giudicare. Che non ammette un ente terzo (in questo caso un autovelox) deputato a segnare un limite. A certificare che di là non si deve andare. Fosse anche di un chilometro. Perché se per graziare me alziamo il tetto a 71 all’ora, ci sarà uno che prende la multa a 72 e chiederà maggiore elasticità. E così via.

Naturalmente è un’ipotesi di scuola.

Ecco, la scuola. Leggevo stamattina la lettera a Repubblica di un’insegnante che ha rifiutato l’allettante possibilità di lasciare il suo posto da precaria a Napoli per trasferirsi a Pordenone. Che raccontava della sua Laurea col massimo dei voti, dei suoi 13 anni di flipper tra le scuole, delle classi da 34 che basterebbe dividere a metà per creare veri posti di lavoro, del fatto (pochi lo sanno) che le assunzioni di Renzi ottemperano semplicemente a un diktat dell’Unione Europea contro i lavori a tempo determinato, che però Renzi ottempera a quel diktat in modo furbesco perché costringe molti a dire di no, mentre i più qualificati vengono spostati in massa al nord e al sud restano insegnanti meno bravi e con meno esperienza, eccetera.

Quell’insegnante ha sentito il bisogno di scrivere a Repubblica perché lo storytelling renziano dipinge lei e i suoi colleghi come una manica di fannulloni che non accettano l’occasione della vita. Le rimprovera l’uso del termine “deportazione”, perché associato a una tragedia della Storia, come se essere spostati di centinaia di chilometri per mille euro al mese fosse un pranzo di gala.

Le parole sono importanti: deportazione significa essere costretti a cambiare casa contro la propria volontà. Pena, in questo caso, la perdita del posto fisso. Quello è. E solo quello. Nessuno sano di mente può pensare che il ministro Giannini sia Himmler.

Lo stesso storytelling identifica gli insegnanti come nemici perché questo crea consenso. Sono statali (il male), spesso sono addirittura meridionali (che vergogna) ma soprattutto giudicano. Danno voti. Si permettono di insegnare ai nostri figli. Scelgono. Incarnano un’autorità.

Colpirli fa figo. E apparentemente non costa nulla.

Invece.

Certo, ci sono professori orribili. Un reale principio di meritocrazia dovrebbe e potrebbe relegarli in condizione di non far danni. In caso di malafede, dovrebbe portare a licenziamenti. Ma è molto più comodo tenerli nel mazzo per colpire l’intera categoria. Spedire qualcuno lontano da casa senza poter provvedere a se stesso (ce l’avranno un marito, una moglie, dei figli, questi precari che snobbano la vincita al Totocalcio) indebolisce un’intera categoria. Innesca negli studenti, o la rafforza, la convinzione di dover essere gestiti da morti di fame masochisti.

Non è un caso se nello stesso storytelling i giornalisti che si permettono una virgola contraria al governo sono gufi e rosiconi. Non è un caso se Renzi, Grillo, Berlusconi, additano un cronista per educarne cento, e quando possono agiscono concretamente per tagliar loro le unghie. Non è un caso se questo governo spiega che il parlamento non è un passacarte dei giudici, e se quelli precedenti cercavano in tutti i modi di disinnescarli e soggiogarli. Certo, nel caso di Forza Italia c’erano anche impellenti necessità di protezione del proprio fondoschiena. Ma la ratio è un’altra: assecondare il senso comune dopo aver contribuito a crearlo e fortificarlo.

Un senso comune anarcoide che non ammette giudici. E fa di tutto per indebolirli agli occhi di chi poi voterà secondo coscienza. Purtroppo.

Anche per questo, io la multa l’ho già pagata.

Certo che per un chilometro all’ora…

Il mio amico Cristian (di Bologna Fc, bottigliate estive, e varia umanità)

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“Bianchi, ma tu non ti sei vergognato a giocare un anno così davanti ai bambini?”.

La battuta (suggeritagli, dice lui con umiltà) è di Cristian Frabboni. L’ha scritta sul web.

Ed è una grande battuta.

Si riferisce a Rolando Bianchi, centravanti per mancanza di prove del Bologna Fc 1909, che l’altro giorno ha finalmente risposto, mandando platealmente a stendere gli ultrà rossoblu che facevano a botte nel ritiro di Castelrotto – appunto davanti ai bambini – al quesito che ci ponevamo da almeno tre anni: a cosa serve esattamente Rolando Bianchi?

Siccome l’ironia unisce, posso dunque affermare che il brillante Cristian, leader del gruppo Beata Gioventù, cioè proprio quelli che facevano kickboxing a Castelrotto, è un mio amico.

Vantiamo anche un saldo rapporto epistolare. Io ho scritto, su Facebook, che chi spaventa i bambini spaccandosi la testa in mezzo alle mucche Ha.Rotto.I.Coglioni. E lui ha puntualizzato, ha postato link, mi ha mirabilmente perculato. Chapeau.

Io e il mio nuovo amico Cristian abbiamo tante cose in comune: tifiamo Bologna, per dire. Basta. E mi ha già fatto cambiare un pezzo. In queste righe, infatti, doveva esserci una lettera a Marco Di Vaio in cui lo supplicavo di trattare la vicenda di Castelrotto più o meno così: “Oh, raga: noi abbiamo già messo 45 milioni di euro e le famiglie le vogliamo paganti, non che scappano tra i boschi. O la piantate subito, o dopo Paponi vi ridiamo pure Guaraldi”.

Ma Di Vaio, che pure andava in curva pure lui, quella della Lazio (e secondo me a Cristian potrebbe non dispiacere) ha già detto cosa pensa del parapiglia di mercoledì. In modo diretto. Inequivocabile. Irrevocabile. E pure Tacopina.

Così, uniti dal sacro fuoco dell’ironia, colgo l’occasione per ribadire alcuni punti di marginale dissenso sui quali potrei certamente imbastire un pacato percorso dialettico col mio amico.

  • Fare a bottigliate con gli ultrà dello Spezia (!) in mezzo ai pascoli, a fine luglio, attiene più ai rudimenti di primo soccorso per angina pectoris che a un atto di eroismo.
  • Menarsi tra ultras della stessa squadra per questione di gemellaggi, egemonie, e diversi pareri sull’universo mondo, inerisce al campionario del bondage e non a una concezione ardimentosa della vita.
  • Se ti chiami Beata Gioventù e qualche mitomane tipo Bottura fa presente che sembri sempre sul punto di invadere la Polonia, trova il modo di fotterlo: smetti di usare simboli nostalgici del crapone così se la piglia in saccoccia.
  • Ballare sulla tomba di Dalla perché “Caruso” è troppo terrone, augurare eruzioni ai napoletani e voli dal tetto a Pessotto (che giocava con te ed è un bravo cristo), aggredire Gianni Morandi, non ti procurerà un busto al Foro Italico. Al massimo un selfie con Gianni Morandi.
  • I giornalisti sono brutte persone. Se però ventilano che Porcedda è un tizio improbabile, lo applaudi lo stesso, salta fuori che è un bancarottiere, e tu dai la colpa ai cronisti, è persino possibile, ragionando per assurdo, che, per dirla con Kierkegaard, tu l’abbia fatta fuori di alcuni chilometri.

In generale, amico Cristian, farei mia la risposta che Emilio Marrese ti ha dato nel nostro amabile thread: non è perché ho una bambina in adozione a distanza con Save The Children che posso rigare la macchina al primo che mi sta sui maroni.

Quindi tu, che ami gli animali e li curi ogni giorno, il tipo che lavora in pediatria e mi ha scritto “vabbé ma dei bambini picchiati in famiglia non parlate mai”, quell’altro di cui non conosco il mestiere per cui il filmato di Castelrotto era taroccato, continuerete a essere trattati solo come un problema di ordine pubblico (spesso malamente, perché capita che chi lo gestisce sia incapace) finché deciderete di essere principalmente un problema di ordine pubblico.

Perché quando spaventate i bambini e persino i cuor di coniglio come me, avete.rotto.i.coglioni. Sempre con ironia. E grande amicizia.

Una virile stretta di mano. A presto. Ciao.

 

Uscito sul Corriere di Bologna

DALLO STORY TELLING ALLO STORY YELLING: BREVE PIPPONE SUL NUOVO MIRACOLO RENZIANO

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Ieri sera ho avuto un breve scambio su Twitter con Francesca Puglisi, responsabile Pd della scuola.

Francesca è un’amica. E – lo scrissi per Scalfarotto – mai potrei dubitare della sua buonafede e del suo impegno politico.

All’origine di tutto, un post dell’ex deputato piddino Salvatore Vassallo (pure lui figura specchiata, oltreché molto competente) che faceva presente come la curva del consenso renziano fosse salita durante la luna di miele, stia scendendo ora che Renzi prende provvedimenti, tornerà a salire quando quei provvedimenti avranno effetto.

Ho commentato che da un anno e mezzo è proprio quello l’unico obiettivo di Renzi: il consenso.

Francesca mi ha risposto che se avessero cercato il consenso, non avrebbero fatto la riforma sulla scuola.

Ho allora argomentato che quella riforma, poi molto annacquata, è stata scritta contro una categoria invisa ai più – gli insegnanti – e che quindi anche quella legge parla a quelli di cui Renzi desidera il voto. Cioè, specifico, l’italiano medio che vede nello Stato un coacervo informe di privilegiati fannulloni da colpire.

La mia risposta ha avuto qualche commento a favore, purtroppo protogrillino. E nessun retweet. Il commento di Francesca è stato ampiamente ritwittato.

Questo piccolo dato empirico (il suo successo “social” ai miei danni) conferma, o almeno credo, la mia tesi: Renzi vince quando indica nemici. Gufi, rosiconi, la ditta, i giornalisti, i commentatori, i media stranieri. Perché questo compatta un consenso in gran parte livoroso contro categorie polverose e mal tollerate, del tutto sovrapponibile a quello che sosteneva Berlusconi.

O Craxi, che forse gli somiglia pure di più.

Oggi, all’Expo,  Renzi ha ribadito lo schema elencando tutti gli ostacoli sulla via del nuovo miracolo piddino: destra, populisti, sinistra radicale (che non esiste, e se c’è è dispersa in mille rivoli), disfattisti.

Lasciamo stare la citazione dei disfattisti, che attiene a stilemi da Prima Guerra Mondiale (e rende bene il coté culturale del Premier) ma analizziamo lo storytelling, che – per usare vecchi schemi – rappresenta ormai una sorta di arco costituzionale ad personam: è Renzi che legittima gli oppositori. Verdini sì, Civati no. Berlusconi sì, Salvini (forse) no. Grillo sì, ma Grillo anche no.

Tutto questo infilando il maniaco delle felpe tra i “cattivi”, al solo scopo di non dire – ancora oggi – una parola chiara su un Paese largamente razzista che prima sbraitava di voler dividere i profughi dai clandestini, e adesso brucia le case e le cose dei profughi.

Di quello non si parla. Farebbe, appunto, perdere consenso. Il consenso cui Renzi tiene maggiormente.

Riepilogando: il positivo Renzi, l’uomo che si era presentato con la margherite in mano, grondando ottimismo, basa ormai la propria poetica sull’individuazione dei nemici. Nemici personali, non politici, in modo da non coinvolgere coloro che li votano o li hanno votati. Li personifica, dà loro un nome, proprio per non urtare nessuno di quelli che, soprattutto da destra, ne amano il decisionismo e potrebbero votarlo. Tenta di compattare i fan contro qualcuno, sperando di arrivare a fine campionato, tra una promessa e l’altra, con lo scudetto. Sembra il prof Scoglio quando invitava la squadra a unirsi, anche contro di lui. Ma, meglio, contro gli altri.

Come spesso gli accade, ha una tattica per arrivare alla fine della stagione, o alla prossima promessa, ma non una strategia che vada al di là di un applauso in più da coltivare in vitro.

Ha uno storytelling, ma non ha la story. O se ce l’ha è la stessa di Berlusconi. Però lui la urla, in una sorta di story-yelling. Mentre le menti migliori del suo partito, o di quello che fu, si prestano con entusiasmo alla logica del “questo abbiamo, allora tenetevi Salvini”.

Salvini, o Grillo, che facilmente avremo al governo fra tre anni, quando l’elettorato di destra si compatterà contro quel resta dei “comunisti” e farà vincere, grazie alla disastrosa legge elettorale modulata sul Pd al 40 per cento, uno dei populisti che Renzi dice di voler combattere.

A meno che Renzi non riesca, in questo periodo, a dimostrare che anche nel campo del populismo di destra è molto migliore di loro.

Buona fortuna.

Un breve saluto romano

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furio camillo sit itLa vicenda è nota e tristissima: un bimbo muore a Roma nelle viscere della metro, ucciso da un cumulo di imperizie e dalla fatalità.

Alcuni giornali di destra descrivono Marino come il killer del piccolo.

Successivamente, l’ascensore viene impacchettato con parole di circostanza firmate da un lettering inconfondibile. Quel lettering è patrimonio di buona parte del mondo ultrà ma deriva direttamente dall’estrema destra. E’, ad esempio, quello storicamente utilizzato da Forza Nuova.

Faccio notare la cosa, su Twitter. Il vicedirettore de Il Giornale Nicola Porro, quello che voleva mandare i segugi contro la Marcegaglia, quello che voleva abolire il canone Rai ed è finito negli spot per invitare a pagarlo, perché in Rai adesso ci lavora, quello che mi ha querelato perché l’avevo un po’ sfotticchiato in radio, attiva la macchinina del fanghino e mi ritwitta additandomi.

In breve ricevo diversi messaggi di critica – nessun problema: si chiamano social – che vertono tutti sulla mia presunta ossessione, sul fatto che quel font lo usano per esempio anche gli ultrà del Livorno, eccetera. Nell’impossibilità di rispondere a tutti, utilizzo questo breve scritto per un’analisi sintetica e onnicomprensiva che dedico per primo a Porro: ma chi volete prendere per il culo?

No, dico: ma quella scritta l’hanno fatta forse gli ultras del Livorno?

Analogo problema mi era capitato quando feci notare l’utilizzo di quel font nella curva del Bologna. La mia. Ne guadagnai minacce e insulti. Però io sono così: me ne frego (cit.) e se capita, lo faccio notare. Perché quella cultura mi spaventa. E lo rivendico.

A ben guardare, però, il dato interessante è un altro: in Italia l’estrema destra, o il pastiche di paranoia ignorante e paracula nel quale si è da tempo trasformata, ha monopolizzato le curve, le periferie, in città come Roma può vantare una specie di egemonia trasversale in strati vastissimi della popolazione, “firma” in modo incidentale o voluto persino messaggi di solidarietà come quello di cui sopra, ma quando gli ricordi che sono fascisti s’incazzano ancora.

E, con loro, i vicedirettori col culo al caldissimo che, anche se non lo sanno, qualcosa in comune con Forza Nuova ce l’hanno: pure loro mi querelarono, pure loro se la pigliarono in saccoccia.

Ciao Nicolino. Fatti uno spritz alla mia salute. Te lo offro con la mia parte di canone.

Alla tua.

Anzi: a noi*.

*Sia chiaro che “A noi” non è affatto un implicito riferimento a una frase spesso usata durante il Ventennio fascista ma un generico invito a sorbire insieme una bevanda, peraltro spesso utilizzato anche nella curva del Livorno.